Se Mandalay è casino, Bagan è silenzio. Non che non si sia gente. Anzi, ce n’è fin troppa per il turista che si illude di non essere tale, ma viaggiatore. Bagan è il sito archeologico più visitato del Paese, una distesa di templi – oltre 4mila – che cominciano a trasformarsi in business. Meglio venirci ora che non è ancora un luna park, anche se gli hotel già spuntano come funghi e le strade della città nuova pullulano di ristoranti e motorini elettrici. Che, appunto, non fanno rumore.
Eppure Bagan, dicevamo, è silenzio. È silenzio all’alba, se sei abbastanza fortunato da inerpicarti su una stupa (il tipico monumento a punta buddhista) non troppo frequentata, mentre dall’orizzonte, con il sole, si levano anche le mongolfiere dei turisti senza limiti di budget. È silenzio al tramonto, quando, dalle stesse postazioni, nessuno fiata perché lo spettacolo, oggettivamente, non ha bisogno di parole. Soprattutto è silenzio quando smetti di correre tra un sito e l’altro, ne scegli uno deserto e, alle 4 del pomeriggio, decidi di fermarti lì a leggere, all’ombra di pietre millenarie che, non più tardi dell’anno scorso, un terremoto ha rischiato di far venir giù come birilli.
A Bagan Montone ha assistito a una lunga processione di monaci che raccoglievano offerte, ha fatto uno strappo alla dieta birmana (qui), ha fatto amicizia con un ragazzino del posto che vendeva cartoline, cantava il coro di Ollellé ollallà in italiano perfetto e sapeva fare l’hula hoop meglio della grafomane.