L’appuntamento è fuori da un supermercato di quelli belli, dove fanno la spesa gli expat e i birmani bene. «Vi aspetto all’ingresso con una baguette sotto il braccio». Stasera a cena siamo ospiti di Alberto Peyre, l’architetto italiano che negli anni 90 ha costruito il primo resort di lusso a Ngpali, località balneare tra le più esclusive di tutto il Myanmar. Moglie birmana – «Quando ci sposammo fu un mezzo scandalo, colpa dei giornali locali che diedero troppo peso alla notizia» – un figlio adolescente che parla quattro lingue, il nostro pioniere vive a Yangon, a una manciata di chilometri dall’aeroporto, in una zona verde di belle villette e campi da golf che con il centro, la Chinatown degli ingorghi e dei palazzi allo sfascio, ha ben poco a che fare.
Casa sua – che ovviamente si è progettato da solo – pare uscita da una rivista di design. Ampie vetrate che danno sulla piscina, arredi eleganti, qualche pezzo originale che fa la differenza. L’ingegnere quasi si inginocchia al cospetto di due moto d’epoca parcheggiate in salotto. «Vedrai i minibus!», gli dice Alberto, che dopo cena ci porterà in garage per mostrarci gli Chevrolet vintage, rimessi a nuovo e tirati a lucido, a bordo dei quali organizza tour deluxe per il Paese.
Arrivato in Myanmar 20 anni fa per costruire la villa di un amico, l’architetto, ex art director della carta stampata, non se n’è più andato «perché qui sono riuscito a fare cose che in Italia non avrei avuto la possibilità – né tantomeno l’età – di fare. A 70 anni dovrei essere in pensione, invece continuo a progettare e realizzare nuove idee». Alberto il Paese se l’è visto trasformare sotto gli occhi, ed è affascinante sentirlo raccontare una realtà che non c’è più: «Le prime volte che atterravo di notte a Rangoon (il vecchio nome di Yangon, ndr), attorno non si vedeva nulla, non una luce: persino in aeroporto i passaporti te li controllavano con la pila, perché non c’era elettricità. In compenso c’erano le spie a guardarti di traverso, perché erano gli anni del regime militare». I cambiamenti sono arrivati tutti insieme, e troppo in fretta. «Va tutto veloce, molto più veloce che da noi. Ieri la tecnologia non esisteva, oggi gli smartphone sono alla portata di tutti; nessuno guidava, ora chiunque va in giro in motorino pur continuando a non saperlo fare (ma non a Yangon, dove le due ruote sono vietate proprio per ragioni di sicurezza, ndr)». Eppure vale la pena restare, perché qui ormai è casa. Una casa dove si beve vino rosso, si mangiano spaghetti aglio e olio e nel frigo c’è persino il gorgonzola, che strappa gemiti di gioia e lacrime di commozione all’ingegnere stremato da settimane di riso. Una casa che ci dispiace lasciare, perché ci siamo sentiti accolti e viziati come vecchi amici. Ma è ora di andare, Chinatown ci aspetta: abbiamo una sfida da continuare, noi, a chi conta più topi fuori dall’ostello…
Scoprite alcuni dei progetti di Alberto Peyre: il Sandoway Resort di Ngpali e i tour in pullmino vintage Elephant Coach