Laos/1 – Lungo il Mekong
In Laos, la vita scorre lenta come il Mekong. Turisti e locali coabitano su slow boat, circondati da sacchi e paesaggi da selfie scartabili. Milano? Ah, sembra un’altra galassia!
In Laos, la vita scorre lenta come il Mekong. Turisti e locali coabitano su slow boat, circondati da sacchi e paesaggi da selfie scartabili. Milano? Ah, sembra un’altra galassia!
I laotiani hanno fama d’esser pigri. Stereotipi, pensiamo. Invece no, qui tutto si svolge veramente a ritmo di moviola. Non facciamo in tempo a lasciare la Thailandia in direzione del confine che i minuti cominciano a incepparsi, né riprendono i battiti normali una volta arrivati a Huay Xai, prima tappa della nostra avventura nella sonnolenta Repubblica Popolare, dove in tanti non sanno una parola d’inglese e fuori dai negozi sventolano ancora le bandiere con falce e martello.
Da qui, dalla cittadina che sarebbe inutile e dimenticata se non fosse porto di partenza delle crociere sul Mekong, ci imbarchiamo anche noi per i due giorni classici di discesa lungo il fiume fino a Luang Prabang. L’ingegnere è scettico, la grafomane non vede l’ora. La pecora giace riposta nello zaino in attesa del suo momento di gloria, quando rischierà di cadere nelle acque limacciose. La slow boat è impacchettata di occidentali: backpackers con gli zaini così pieni che sembrano aver ingoiato un armadio, ragazzine che viaggiano due a due, qualche ciclista avventuroso che si fa issare la bici sul tetto di lamiera. Ci sediamo comodi, guardiamo fuori, scattiamo qualche foto. Qualcuno azzanna un sandwich anche se sono solo le 10 del mattino. Attorno a noi, i pendolari laotiani prendono posto con i loro mille sacchetti. Quelli che viaggiano leggeri hanno giusto qualche sporta di cibo. Altri hanno sacchi di provviste da consegnare al prossimo porto, borse simil-Ikea colme di chissà cosa, sacchi di riso che a un certo punto trovano spazio soltanto nel corridoio, dove diventano poggiapiedi e pouf per gli ultimi arrivati.
Il viaggio dura due giorni, con uno stop nella minuscola cittadina di Pakbeng (che ci regalerà una serata quasi mondana nella cosa più simile a un locale che abbiamo visto finora). Due giorni, dunque, da mattina al tramonto, e a bordo non c’è molto da fare se non inventarsi qualcosa da fare. Inutile dirlo, è bellissimo. Qualcuno dorme, qualcuno scatta fotografie che poi scarterà, perché sperare di cogliere la meraviglia del Mekong è come sperare di immortalare un vampiro. Leggono in tanti, in tanti scrivono, compilano diari di viaggio con carta e penna, riscoprendo il gusto perduto di una biro tra le mani. Il cellulare non prende e viene estratto dallo zaino solo per guardare l’ora. Si parla, ci si racconta il viaggio in corso. La vacanza breve qui non va di moda, siamo tutti in pausa, in stand-by dalla nostra vita, lontani da casa per due, sei, dodici mesi. Scopriamo di non essere poi così originali, niente affatto speciali. Non ci rimaniamo male.
Il paesaggio non è dei più vari. Il secondo giorno di navigazione il sole accende di riflessi le acque verdognole, le correnti creano vortici tra le rocce. Un occhio là fuori lo buttiamo, a tratti, ma ormai abbiamo capito tutti che il vero spettacolo sta nell’umanità accampata su questi vecchi sedili di automobile riadattati: nella signora che dorme dopo essersi divorata metodicamente il contenuto di uno dei suoi mille sacchettini, nel monaco scheletrico con un berretto in testa e un asciugamano giallo sulle spalle, nella madre-bambina e nella sua bambina con i codini dritti sulla testa, nei gesti precisi con i quali la imbocca di piccole forchettate di noodle istantanei.
Milano, con la sua fretta – la nostra fretta innata – non è mai stata così lontana.
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