A qualche chilometro da Kasi, sulla strada da Vang Vieng e Luang Prabang, c’è un villaggio minuscolo dove 15 anni fa un uruguayano si ritrovò senza soldi a fare l’autostop. Venne raccattato da un abitante del posto, sfamato e ospitato. L’anno dopo era di ritorno. Oggi Alec – così si chiama il viaggiatore – è ancora qua in mezzo al nulla. Con il suo soccorritore – un contadino, mezzo dottore, che ha fatto la guerra in Vietnam, imparato l’inglese da solo e che tutti chiamano il Capitano, perché il suo nome lao è probabilmente troppo complicato per i falang, gli stranieri – ha costruito una guesthouse. Meglio, un rifugio per scappati di casa, dove trovano alloggio, gomito a gomito con quattro generazioni di laotiani, viaggiatori in fuga dal turismo di massa, felici di punirsi con docce fredde e notti al gelo come il bambin Gesù, e volontari pronti a dare una mano in cambio di un letto, sticky rice e whiskey locale.
Qui ci porta Milagros Heineken in un tiepido pomeriggio di dicembre, che presto si trasforma in una non altrettanto tiepida notte in cui ci pentiamo di essere nati. Ma l’atmosfera è conviviale, il cibo abbondante, il campionario umano variegato. C’è la ragazza madre che viaggia, figlio al seguito, da quando lui ha un mese, il francesino entusiasta che prende l’indirizzo di tutti perché un giorno o l’altro vi verrò a trovare, l’argentina e il tedesco che si sono appena conosciuti e sembrano usciti da Prima dell’alba. Il freddo a tratti passa in secondo piano.
E poi c’è il jungle trekking. Partiamo di buon mattino con il Capitano in mocassini e altri due ospiti in braghette e scarpini da basket, convinti – noi – che sarà una passeggiata di salute. “Se è tutto così è una figata”, fa in tempo a dire la grafomane prima di arrivare al primo guado. Dopo venti minuti siamo con i piedi a mollo nel fiume, dopo quaranta l’acqua ci arriva alle ginocchia. Il Capitano procede spedito, i francesi con gli scarpini lo seguono agili e imperturbabili. L’ing arranca a causa dei pantaloni di cotone che, inzuppati, pesano come un bambino di otto anni, la grafomane chiude la fila imprecando come uno scaricatore di porto e cadendo faccia a terra ogni tre passi. “Brave woman”, la loda il Capitano mentre accende il fuoco ai piedi di una scenografica cascata. “E sticazzi”, vorrebbe rispondere lei, ma non sa come tradurlo in lao quindi si limita a sorridere masticando pelle di bufalo.
Sulla via del ritorno ci fermiamo per un tè da un gruppo di laotiani che stanno facendo un barbecue in mezzo alla giungla. Ma non ce l’avete un giardino dietro casa, un Idroscalo? siamo lì lì per chiedere, poi l’occhio ci cade sugli spiedini di ratto che stanno dorando a fuoco lento e ogni parola ci muore in gola – sai mai che gli venga in mente di offrircene uno. Il Capitano, dal canto suo, ne compra un paio e se li infila nel taschino dello zaino, le zampine rachitiche che spuntano invitanti. Quella sera, a cena, siamo tutti sollevati nel constatare che il menu è prettamente vegetariano.
Nola Guesthouse: https://nolaguesthouse.wordpress.com/
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