Chi si lamenta del traffico in tangenziale dovrebbe farsi un giro nell’ex capitale birmana, dove gli ingorghi sono paralisi e l’ora di punta dura quasi tutto il giorno. Yangon è un tumore di traffico e smog cresciuto a dismisura nel polmone della giungla: ancora oggi è tra le città più verdi dell’Asia, ci dicono, eppure risulta difficile crederlo mentre ci facciamo largo nella bolgia di Chinatown, dove i venditori di frutta allestiscono i loro banchetti a terra e topi grossi come Montone scorrazzano felici, o mentre villaggi-discarica scorrono lenti fuori dal finestrino di un treno senza aria condizionata.
E poi c’è l’altra Yangon, assaggio di un Paese che non avevamo ancora visto, ben sapendo che da qualche parte doveva pur essere: quello benestante, persino ricco, dei centri commerciali lindi e puliti, dei supermercati gourmet dove un pacchetto di patatine (al caviale) costa quanto una cena per due nei ristoranti dove ci sfamiamo da venti giorni. Eccoli finalmente i birmani della classe medio-alta, che al long-yi abbinano la camicia inamidata e abitano nelle villette fuori dal centro, vicino ai campi da golf. Di loro le guide non parlano, ai turisti non interessa conoscerli ed entrare nelle loro case, perché la loro vita è fin troppo simile alla nostra e vuoi mettere dormire in un vero villaggio di montagna? Cosa che, per inciso, abbiamo fatto anche noi e ci è pure piaciuta. Ma scoprire che ci sono anche questi birmani qua, che evidentemente non viaggiano in bus e preferiscono camembert e vino a tè tiepido e fried noodle, ci fa sentire un pelo più vicini al Myanmar, quello vero, che non è solo pagode dorate e pittoresca miseria.