Il buddismo è fatica, e con esso il turismo in un Paese buddista. Se i fedeli si sottopongono a inenarrabili sbattimenti per guadagnare meriti e allontanare il rischio di reincarnarsi in uno scarafaggio, noi facciamo altrettanto per visitare i loro luoghi sacri, che si trovano immancabilmente sul cucuzzolo di qualcosa, in cima a rampe di scale che normalmente non affronteremmo neanche dietro minaccia. Invece qui, presi dal sacro fuoco della scoperta, ascendiamo. Ascendiamo come pazzi, divorando gradini come patatine, grondando sudore, non vedendone mai la fine ma vedendo, in compenso, draghi e madonne per lo sforzo, che in confronto un’ora in palestra pare il risveglio muscolare per la terza età. L’unico a non accusare il colpo è Montone, beato nello zaino dell’ingegnere, pronto a essere estratto per la foto di rito o, in casi estremi, per tamponare le nostre madide fronti.
Così ascendiamo al monte Popa, sede dei 37 nat (spiriti) in auge prima di Buddha. A sud-est di Bagan, ci arriviamo con un’ora e mezza di pullmino passata a origliare le conversazioni di due coppie radical chic convinte di aver trovato il Santo Graal del turismo alternativo. 777 scalini, tante scimmie che scappano terrorizzate davanti alla GoPro dell’ing, una vista dall’alto carina ma non indimenticabile, Popa non ci fa impazzire. Come se non bastasse, la grafomane veste di verde senza sapere che è colore inviso ai padroni di casa: ne pagherà le conseguenze nelle ore successive.
Molto meglio di Popa – anche perché questa volta il taxi lo dividiamo con due francesi simpatici – è Pindaya, vicino a Kalaw. La visitiamo invece che andare a dormire dopo una notte in bus: freschi come le rose, giochiamo il jolly e saliamo in ascensore, per trovarci in una grotta naturale piena di statue di Buddha. Ce ne sono 8mila per la precisione, e scusate se è poco.
Terza ascesa è alla Golden Rock in cima al monte Kyaikhito, terzo sito più sacro del Paese dopo la pagoda Shwedegon di Yangon e il tempio Mahamuni di Mandalay. Metà del divertimento coincide con il viaggio a bordo delle camionette ufficiali, unici mezzi ai quali è consentito inerpicarsi sulle pendici ripidi come montagne russe. Il resto lo fa lo stupore al cospetto di un blocco di granito in equilibrio su una roccia (il tutto rigorosamente ricoperto d’oro): secondo la leggenda non cade perché poggia su una ciocca di capelli di Buddha, ma per sicurezza sarà meglio non appoggiarsi, eh?
Il monte Zwekabin quasi ci uccide. 800 metri di dislivello che ci facciamo in un’ora e mezza di gradini alti, irregolari e bastardi (più un’altra ora a scendere). Sul sentiero incontriamo birmani con long-yi e infradito, passo placido e non una goccia di sudore, monaci saltellanti e pure un signore con la gamba di legno. Noi arriviamo in cima sciolti, così bagnati che sembriamo usciti dalla doccia, talmente devastati che per il primo quarto d’ora non ci ricordiamo nemmeno che c’è un paesaggio da ammirare. Mentre torniamo a valle, due vecchiette e un monaco ci vedono passare dalla finestra e ci invitano alla loro tavola. Mangiamo riso e intingoli non meglio identificati con le mani, diciamo grazie in birmano cinquecento volte (anche perché oltre a ciao è l’unica parola che abbiamo imparato) e ce ne andiamo felici.
A Moulmein (Mawlamyne) ci aspettano le ultime ascese birmane, che affrontiamo con i polpacci urlanti dal giorno precedente. Fuori città ci addentriamo nel giga Buddha sdraiato di Win Sein Taw Ya, un’assurdità di oltre 150 metri talmente brutta da piacerci da morire. Chiudiamo con la Kayaik Tan Lan, la pagoda citata da Kipling nei versi di Mandalay. Da lassù la città, che a livello strada è un po’ una schifezza, acquista un certo fascino. Ascendere, in fondo, è sempre una buona idea.