Sorvoliamo sui tre giorni che ci servono per scendere da Hoi An a Ho Chi Minh City, durante i quali prendiamo pioggia a secchi – alla faccia della stagione secca – dormiamo male e mangiamo peggio. Il tutto senza passaporti né Montone, ignominiosamente dimenticati nella città delle sartine (e poi rocambolescamente recuperati).
Ma la nostra liaison con il Vietnam non poteva finire così, con l’amaro in bocca e l’acqua nelle scarpe. A riaccendere la passione è l’ultima tappa, la città dai due nomi e le tante anime: l’Ho Chi Minh City delle strade trafficate, folli, dei palazzi in costruzione, alti, sempre più alti, e la Saigon dei tempi andati, coloniale, francese, elegante, con i suoi hotel storici e negozi di lusso. Nel mezzo, la terra di nessuno della backpackers area attorno a Bui Vien, dove si concentrano gli ostelli, i locali con la musica a palla e il cartello dei centri massaggi, Seven dollárs, madame, discount for you. Persino qui, nella zona più snaturata della città, basta scendere in strada la mattina presto per trovare i vicoli orfani di turisti, ma già vivaci di gente che risucchia i noodle in brodo del pho, il piatto nazionale che va forte anche a colazione, mentre un macellaio lavora di mannaia e i primi ambulanti cominciano a sfrecciare in bicicletta, carichi come Babbo Natale la sera della Vigilia.
Breve, troppo breve (accidenti al visto), ma intensa, Saigon è un colpo di fulmine, un colpo al cuore. Lo è al museo della guerra, che ti prende a schiaffi con gli orrori del conflitto tra Vietnam e Stati Uniti, le immagini dei bambini bruciati dal napalm accanto al ritratto di Robert Capa, il reporter, morto con la macchina fotografica ancora tra le mani. Lo è al Continental, l’hotel più antico della città, che in tempo di guerra fungeva da sala stampa per i giornalisti stranieri (giornalisti veri, loro, mica pennivendoli e cazzeggiatori come la grafomane). Lo è quando una fiumana di gente scende in piazza per celebrare la vittoria della Nazionale Under 23 nella semi-finale della Coppa d’Asia, facendo un casino che manco fosse la finale dei Mondiali. Tanto per cambiare noi ci ritroviamo nel mezzo della festa, ci uniamo ai coretti: Viet-nam! Ho Chi Minh!, pensiamo che questo popolo è bello e piena di vita, forte più della morte e del dolore capitatogli in sorte appena qualche generazione fa, accogliente come un abbraccio, sorridente, chiassoso, contagioso.
Così finisce il nostro quasi mese in Vietnam, in un tripudio di bandiere, clacson e trombette assordanti. Prima ancora di passare la frontiera, sentiamo già un pizzico di nostalgia.