Quando entriamo in Cambogia troviamo la Sfiga ad accoglierci a braccia aperte. L’ingegnere agonizza da giorni in preda alla febbre alta: “Devo solo riposare”, ripete, ma né le soste negli “autogrill” – baretti a bordo strada equipaggiati di amache – né la notte alle porte di Phnom Penh, in un resort affollato di sud coreani invasati che finiscono il cibo e si tuffano a bomba in piscina, sortiscono alcun effetto. Arriviamo così a Kampot: lui stremato con 39 di febbre e la sudorazione di un pizzaiolo al 15 di agosto, la grafomane preoccupata per il rimpatrio della salma, Montone negletto in fondo allo zaino del moribondo. Finiamo in un eco-resort gestito da una coppia francese molto eco-zen che ci adotta, si prende cura di noi e il giorno dopo ci spedisce in tuk tuk all’ospedale, dove al malato viene diagnosticato un principio di polmonite e prescritta una cura a base di bombe antibiotiche.
Dopo un altro giorno di ozio l’ingegnere è come nuovo, anche se scaraccia e suda copiosamente. Possiamo così esplorare la regione: Kep, la Saint Tropez khmer, dove i cambogiani stendono i teli sul lungomare (lasciando la spiaggia vuota), fanno il bagno vestiti secondo l’uso asiatico e si sfondano di cibo come i romani a Ostia Lido, mentre i turisti si riversano al mercato dei granchi per ingozzarsi di crostacei pescati, freddati e cucinati sotto i loro occhi; le piantagioni di pepe, dove la degustazione quasi uccide l’ing; Bokor, monte dalle belle strade tortuose che portano a una stazione climatica abbandonata. La quale, ahinoi, non si vede, vuoi perché la nebbia è fitta in Val Padana, vuoi perché i lavori in corso per la costruzione di un nuovo hotel-casino sono già fin troppo avviati e del pittoresco villaggio fantasma resta solo il ricordo.
Prossima tappa, il mare. Ma per arrivarci dovremo attraversare la solita cortina di pioggia. Ché a noi i viaggi facili fanno schifo.