Saltare direttamente da Kompong Luong a Siem Reap – dal villaggio galleggiante dove non osano i turisti al bagno di folla dei templi di Angkor – non è un’idea sana. Battambang ci serve per ristabilire l’equilibrio, per farci una doccia con l’acqua corrente ma senza dover affrontare l’esercito di guidatori di tuk tuk, venditori di souvenir e ristoratori che ci aspetta al varco tra un paio di giorni.
Battambang è la seconda città cambogiana, ma sembra un paesone dalle strade polverose, dove i ratti scorrazzano felici tra i resti del mercato ma non violano le camere d’albergo (almeno non la nostra). Non c’è molto da fare se non passeggiare senza una vera meta, sedersi a bere una spremuta di lime, alzarsi e poi sedersi ancora a bere una birra. Sul lungofiume gente di tutte le età fa esercizi per tenersi in forma, nei locali-container (che fanno molto Berlino) si preparano concerti ai quali saremo troppo pigri per andare. Nella galleria d’arte segnalata da Trip Advisor non si entra perché è saltata la luce: il custode fa spallucce e noi ripieghiamo su un altro bar.
Il giorno numero due esploriamo i dintorni. Orfani di Milagros, affittiamo uno scooter e ci andiamo in giro in tre – ingegnere alla guida, grafomane sul portabagagli e in mezzo Ponie schiacciata a sardina e senza casco, stile quartieri spagnoli di Napoli. Sembreremmo quasi cambogiani se non ci tradisse la stazza del guidatore e l’assenza di uno o due bambini in piedi sulla pedana del mezzo. Belli comodi raggiungiamo templi in rovina, caverne nascoste dove una signora ci fa strada ripetendo in italiano “Attenzione la testa!”, aziende vinicole dove degustiamo succo d’uva rancido chiedendo perdono al dio Bacco per l’affronto. Passiamo attraverso campi di loto sfioriti, ci fermiamo a mangiare spring rolls nei villaggi dove si produce la carta di riso che serve per prepararli, finiamo in un parco giochi abbandonato dove l’ing condivide la toilette con una tarantola. Visto che Ponie è in vacanza e sta facendo la cura del luppolo, ci beviamo l’ennesima birra.
Quando ripartiamo, la mattina dopo, sappiamo che ci stiamo lasciando alle spalle l’ultimo sprazzo di tranquillità prima del delirio di Angkor.