“Lascio le chiavi sotto il vaso all’ingresso, che non si sa mai”. Federico, l’amico argentino che ci ospita a Ushuaia, non sprizza ottimismo quando ci diciamo pronti ad affrontare i mille chilometri fino a El Calafate in autostop. Invece non facciamo neanche in tempo a metter fuori il dito che un’auto si ferma. “Volete un passaggio?”, si offre Mauricio, che va a Rio Grande a pescare con gli amici e non ha voglia di viaggiare da solo. Alé! La prima fetta di tragitto vola via veloce, con lui che vuole rimpinzarci di biscotti ripetendo “Come, come” (“Mangia, mangia”) e noi che cerchiamo di frenarlo per non esplodere. Siamo così positivi che ci rimaniamo male quando, alla periferia della cittadina dove lui ci lascia, nessun altro sembra avere pietà di noi. Abbiamo quasi perso le speranze quando all’orizzonte spunta un camion rosso Gabibbo. Al volante c’è Juan, che per il resto della giornata – e dei chilometri che ci separano da Rio Gallegos, dove ci fermeremo per la notte – sarà il nostro autista e intrattenitore.
Juan è un mito. Argentino, 40 anni, 6 figli, fa su e giù tra Buenos Aires e Ushuaia con la stessa disinvoltura di un pendolare che dalla Brianza scende a Milano per lavorare. Guida sorseggiando mate – “In Italia non lo bevete? E cosa bevete allora?”, si cruccia – offre un caffè alla grafomane e si diverte a vedergliene rovesciare metà mentre il tir sobbalza sulle buche, non ama il Cile – Chile puto, lo chiama, che non è proprio un complimento – e si sbellica per il nostro spagnolo raffazzonato. “Hai detto che lo parli male?”, sfotte l’ing. “È vero!”. E giù a ridere. Grazie a lui impariamo che in Argentina è meglio non coger el autobus, perché sono cose che fanno solo le signorine di malaffare in vena di gang bang, e che il mare è pieno di delfines, non delfinos, a meno che non sia particolarmente affollato di omosessuali. A fine giornata gli vogliamo così bene che lo accompagniamo a cena nel tipico postaccio da camionisti, dove, alle 11 di sera, ingolliamo un pasticcio di pollo e patate (e prosciutto, formaggio, peperoni, cipolle e pure tua nonna) della forma e pesantezza di un blocco di cemento armato.
Il giorno dopo l’autostop non funziona, così copriamo gli ultimi 300 chilometri in bus. Uno sbattimento coi fiocchi, ma presto scopriamo che lo spettacolo li vale tutti. Il perito Moreno, che la grafomane chiama perrito e si figura a guisa di cagnolone bruno, è in realtà un gigante bianco che si sgretola davanti ai nostri occhi. Un ghiacciaio alto fino a 70 metri, con un fronte di 5 chilometri, che avanza anche due metri al giorno e perde nel lago antistante pezzi grandi come elefanti, facendo rumore di tuono e alzando ogni volta un piccolo tsunami. Ipnotizzati, restiamo a guardarlo tre ore, consapevoli che domani, o magari tra un’ora soltanto, non sarà più lo stesso. Same same but different, direbbero in Asia. Una figata fotonica, riassumeremmo noi a Milano. Qui stiamo zitti, troppo rapiti per proferire parola. E forse è giusto così.