Potosí è sito Unesco per il suo centro storico di epoca coloniale – ai tempi la città era una delle più ricche del Sud America – e i monumenti industriali, acquedotti e laghi artificiali costruiti per rifornire d’acqua le miniere. In realtà dovrebbe esserlo per le persone che ogni giorno in quelle miniere ci scendono per estrarre argento, zinco, pirite e oro: 18mila uomini che tutte le mattine all’alba si lasciano inghiottire dal Cerro Rico, la montagna che fa la fortuna (e la disgrazia) del luogo e della sua popolazione, riemergendone otto-dieci ore più tardi, quando non di più, ricoperti di polvere e con gli occhi non più avvezzi alla luce del sole.
Laggiù ci siamo stati anche noi, perché la gita in miniera è la principale attrazione turistica della città e noi ci siamo andati apposta, pur sapendo che non sarebbe stata una Gardaland. E difatti non lo è. Goffi come ghostbusters, equipaggiati di tutto punto a mo’ di operai del sottosuolo, prima di sparire nelle gallerie facciamo un tour al mercato dei minatori, dove si comprano uniformi, picconi, candelotti di dinamite, bibite e foglie di coca. Tutto il necessario per affrontare la giornata, insomma, un po’ diverso da quello a cui siamo abituati noi, che la mattina usciamo di casa con la schiscia e la borsa della palestra.
Laggiù è buio, non si respira, l’aria è satura di polvere. C’è fango a terra per le infiltrazioni d’acqua, i cunicoli sono stretti, ogni tanto arriva un vagone a gran velocità e allora bisogna correre, trovare uno slargo e farsi da parte. Gli occhiali si appannano di continuo, il fiato è corto per l’ansia e perché comunque siamo pur sempre a 4mila metri sul livello del mare. I minatori spingono i carrelli, spostano le pietre, lavorano di piccone, restano per ore nello stesso angolo a cercare un grammo di metallo. Masticano foglie di coca per sopportare la fatica, la mancanza d’aria. Se ne ficcano fino a trecento in bocca, le cacciano nella guancia e sembrano castori. Per un attimo ti viene da ridere, ti viene da ridere quando la guida, che il minatore l’ha fatto per 26 anni, ti racconta che là sotto sono sempre di buon umore. “Per forza”, avresti voglia di rispondere, “siete strafatti di coca”. E alcol quasi puro e birrette condivise con il Tio, nume tutelare della miniera – Dio secondo alcuni, il Diavolo secondo altri – al quale è bene portare sempre rispetto e qualche offerta per scongiurare incidenti e disgrazie.
Ti viene da ridere per tre secondi, quindi. Poi pensi che là sotto ci sono ragazzini di 15 anni che non vedranno mai altro se non quelle strette gallerie. Pensi a com’eri tu a 15 anni e smetti di ridere. Pensi che la loro aspettativa di vita è 40 anni, che sono destinati a beccarsi un cancro, la silicosi o una roccia in testa. Pensi a tutte le volte che ti lamenti del lavoro, dell’ufficio, dello sbattimento di alzarti alle 8 e farti 10 minuti di bicicletta per sederti davanti a un computer.
Esci dalla miniera con la schiena curva, il batticuore e le ossa rotte. Sputi polvere e non trovi le parole. Torni con sollievo a fare il turista, a passeggiare per le stradine strette e graziose, a scattare fotografie. Non vedi l’ora che sia domani per trovare qualcosa di futile di cui lamentarti.