Se il Cile è la Svizzera del Sud America, la Bolivia per noi sta al Vietnam, nel senso che ce ne innamoriamo tre minuti dopo aver varcato il confine. È presto, terribilmente presto. L’autista che ci ha prelevato all’hostal di San Pedro de Atacama se la ride: “Sarà dura”, annuncia al nostro gruppo di 12, gli apostoli dell’avventura. “Siamo a 4mila metri d’altitudine, fa freddo, non ci sono comodità. L’unica cosa bella sarà il paesaggio”. Bel modo di presentare il tour offerto dalla tua agenzia per attraversare la riserva Eduardo Avaroa e arrivare al mitico salar de Uyuni, pensiamo noi mezzi rintronati di sonno. Ma basta un quarto d’ora di jeep per arrivare alla prima tappa, la laguna Blanca, con i suoi riflessi delicati nella luce del mattino, ed è subito un colpo al cuore. Il primo di molti, perché per tutta la giornata passiamo da un luogo incredibile all’altro. La laguna Verde, che quando arriviamo noi verde non è perché non c’è vento, il deserto di Dalì, dove sembra di essere dentro un quadro, le pozze termali a 30 gradi e i geyser, dove l’ingegnere si strippa a fare video uscendo da una nuvola di fumo. Quando approdiamo alla laguna Colorada, dove le alghe tingono l’acqua di rosa e i fenicotteri sono tanti da perdere il conto, imploriamo di morire lì, in quel momento, perché è tutto talmente perfetto da non sembrare reale.
Per fortuna che all’hospedaje dove passiamo la notte ci riportano con i piedi per terra. Per cena ci servono zuppa e spaghetti bolognese in versione scomposta: pasta (scotta) in una teglia, sugo (discutibile) in un’altra, formaggio (di dubbia provenienza) in una terza. “Ogni volta all’estero si massacrano le nostre ricette, una nonna italiana muore. In questo caso sta morendo un intero paese di nonne italiane”, esclama l’ing tra l’affranto e il buontempone. Dei nostri commensali – due americani, quattro tedeschi, due olandesi e due di Hong Kong – nessuno capisce la battuta. Il giovane olandese fa il bis senza vergogna e spazzola quel che resta dell’orrida comida, mentre tre bambini spuntati da chissà dove (santo cielo, siamo nel mezzo del nulla) improvvisano una straziante versione di Despacito con strumenti locali (che non hanno ancora imparato a suonare). Alle 9:30 siamo a letto, sei per camerata, sepolti vivi sotto coperte pesanti come cemento armato. Paul l’americano russa come un trattore, Yvonne – la nostra preferita: assistente di volo di Hong Kong, sempre impeccabile, regina del selfie e cintura nera di trucco su strada sterrata – si sveglia alle 4 per vedere le stelle, l’ingegnere, che in questo viaggio non si fa mancare proprio nulla, soffre come un cane in preda al mal d’altitudine.
Per quanto acciaccati, affrontiamo con brio il giorno due: altre lagune, altri fenicotteri, pietre erose dal vento e piantate nel deserto come biscottini sul gelato. Avanziamo in un paesaggio surreale, cullati dalla colonna sonora scelta dal nostro autista, Marco, che spazia dai Backstreet Boys alle Spice Girls passando per altre chicche dimenticate (a ragione) dei ruggenti anni 90. All’hostal di sale della minuscola San Juan ci godiamo un temporale, una doccia calda (mai viste tante persone in fila bramose di lavarsi), una camera doppia senza Paul che russa. “Colazione alle 5, partenza alle 5:30”, ammonisce Marco con piglio da secondino. In un coro di Oh my God ce ne andiamo a dormire. Domani è il grande giorno: domani, dopo una veloce tappa al cimitero dei treni, si arriva al salar de Uyuni. Sono giusto sei anni che aspettiamo di vederlo.