Non è che l’hanno chiamata così tanto per fare. La ruta de la muerte è considerata la strada più pericolosa del mondo, un serpentone sterrato a strapiombo sul nulla disseminato di croci in ricordo di chi ha preso una curva dritta di troppo. Oggi auto e bus la percorrono di rado perché da qualche anno ne hanno aperta una nuova, ma la vecchia, quella brutta, divorata in mountain bike a velocità folle nel tratto da La Cumbre a Yolosita, continua a essere una delle attrazioni turistiche top della Bolivia.
Potevamo esimerci? Figurarsi. Quando c’è in ballo qualcosa di pericoloso l’ingegnere reagisce con lo stesso entusiasmo con il quale la grafomane si getta sul sushi. E quindi eccolo qui, intabarrato nel tutone antivento fornito dall’agenzia, GoPro montata sul caschetto, adrenalina a spruzzo: in sella a Pepino (sì, in questa impresa pure le bici hanno un nome, e piuttosto stupido, perché a che pro chiamare una mountain bike cetriolo?) si lancia nella discesa, schivando sassi – li chiamano teste di bambino e consigliano di evitarle per non finire fuori strada – piegando come in moto, sfiorando il precipizio e, in sintesi, divertendosi un mondo.
Intanto nelle retrovie si consuma il dramma della grafomane. Sarà che lei la bicicletta la usa a Milano-calma-piatta, 120 metri sul livello del mare e al massimo qualche rotaia del tram da attraversare; sarà che la sua velocità di crociera, borsa della palestra in spalla e sporta del mercato nel cestino, è di circa 2 all’ora; sarà che oggi si sente una vecchia zia perché tutte le altre donne del gruppo sono delle specie di Barbie bioniche che non conoscono la paura; sarà che è così bello fare la passeggera e non prendersi la responsabilità della guida; sarà tutto questo e molto altro ancora, ma per tre ore, terrorizzata, non molla il freno, resta miseramente indietro e si schianta a terra due volte, trascinando giù con lei tutti i santi del Paradiso. Dulcis in fundo, a 50 metri dal traguardo, nell’unico tratto in salita della giornata, smette di respirare e inizia a singhiozzare in modo convulso, mentre l’ing cerca l’interruttore per disattivarla e lei, tra le lacrime, balbetta scuse per avergli rovinato la festa.
Eppure alla fine siamo felici entrambi, uno dell’avventura, l’altra di essere sopravvissuta, seppure con una cartina geografica di lividi e bozzi a ricordarle che certe cose è meglio lasciarle alle Barbie bioniche.