Quattro giorni di cammino, 43 chilometri, oltre duemila metri di dislivello. Machu Picchu ce lo guadagniamo così, percorrendo la strada che gli inca facevano cinquecento anni fa per arrivare al luogo più mistico del regno, la città sacra che i conquistadores spagnoli non trovarono mai e che oggi è una delle sette meraviglie del mondo moderno, l’attrazione più gettonata del Perù, forse dell’intero Sud America.
Partiamo presto. Con noi, oltre alla guida, ci sono un cuoco e cinque portatori carichi come muli di tende, sacchi a pelo, cibo, bombole di gas. Il più vecchio ha 58 anni e pare il caratterista di un film dei Vanzina, il più giovane 20 e cucina meglio di una nonna romagnola. Sono tutti quechua, ex contadini gli anziani, contadini mancati gli altri: lavorano per quello che calcoliamo essere una cifra irrisoria, affrontano le salite senza un accenno di fiatone e le discese correndo a mo’ di Heidi nei prati. Va da sé che ci fanno sentire dei ricchi coloni nonché delle cacche pestate, perché noi, con i nostri zainetti da 15 litri semivuoti, arranchiamo come trattori sui gradoni che gli inca, sadici, costruirono ripidi, assecondando la montagna.
Però ce la caviamo bene. Animato dalla sua solita competitività, l’ingegnere procede a passo spedito, incurante della fatica. Come un toro nell’arena, parte a razzo ogni volta che vede qualcuno davanti a noi. “Maledetti vecchi!”, sibila doppiandoli. Se potesse farebbe anche qualche sgambetto. La grafomane, mossa da altri intenti, seppur altrettanto nobili, lo segue senza lamentarsi troppo, sgranando un rosario dopo l’altro alla Santa Virgen Active de Maciachini (grazie Madonna della palestra che mi hai dato il fiato), felice di bruciare tutte le calorie ingerite per mano del già citato giovane cuoco.
Tre giorni volano. Campeggiamo sotto le stelle (o sotto la pioggia, a seconda), giochiamo a dadi con Pavel, la guida, incontriamo innumerevoli lama. Chiudiamo gli occhi e facciamo finta di essere nobili inca in cammino verso la loro Mecca, costruita in 50 anni di duro lavoro e abbandonata dopo appena 20 per l’arrivo degli spagnoli. Chiudiamo gli occhi e pensiamo che ci siamo quasi, che domattina attraverseremo la Puerta del Sol e la vedremo, laggiù, la cittadella tanto attesa e sospirata.
E infine ecco: sveglia alle 3, rush finale con corsa sugli ultimi gradoni per lasciare indietro anche chi si è alzato prima di noi, cuore a mille più per lo sforzo che per l’emozione: Machu Picchu è bellissima, avvolta nella nebbia del mattino che la fa sembrare uscita dalla penna di Tolkien. Tanto più splendida perché conquistata con sudore e polpacci in fiamme, pronti per essere consegnati alle massaggiatrici giù in paese. Siamo sporchi, stanchi e infangati, l’unica doccia ce la siamo fatta con un dispositivo a pedale montato in una latrina alla turca. Sono quattro giorni che non vediamo una birra. La gente venuta su con il bus da Aguas Calientes ci guarda strano, qualcuno chiede alla guida perché vaghiamo tra le rovine con i bastoni da montagna. “Hanno fatto il cammino inca”, sentiamo rispondere. Siamo sopravvissuti. Ce l’abbiamo fatta. E sì, è stata una delle sette meraviglie del nostro viaggio.