A Palomino neanche avremmo dovuto fermarci. Ci restiamo invece quattro notti, schifando Santa Marta, rinunciando all’isola di Barù, dimenticando persino la piccola Minca che tutti descrivono come una gemma dell’entroterra. Sfiniti dall’esperienza guajira, ci schiantiamo in spiaggia nonostante i nuvoloni, ubriachi d’ozio, consapevoli che manca meno di una settimana al ritorno e che il tempo passa rapido come un colibrì ingordo di fiore in fiore.
Troviamo una stanza che sembra una casa, con un giardinetto tutto per noi, due gatti di Satana con cui l’ing fa subito amicizia e la grafomane no, e la chiesa della Pentecoste all’altro lato della strada, dove la domenica mattina alle 7 partono i cori e vanno avanti fino a sera, e chissenefrega se i turisti in vacanza vogliono dormire.
Ma a sedurci è proprio il menefreghismo che Palomino ostenta nei nostri confronti. Quattro anni fa qui non c’era niente, ci racconta il ragazzo che ci accompagna a fare tubing sul fiume (sì, di nuovo. Ma questa volta va meglio che a Vang Vieng). Bastavano 3 mila euro per comprare un lotto di terreno, quando oggi ce ne vogliono almeno 30 (e sticazzi, diremmo noi con la tentazione di staccare un assegno). Poi qualcuno ha fiutato il business. Ora Palomino ha una lunga strada non asfaltata, che da quella principale dove fermano i bus arriva fino al mare. Ogni due metri c’è un ostello che offre amache e lezioni di yoga, ogni tre un ristorante con opzioni vegetariane. Ma basta prendere una via laterale e il regno dei gringos svanisce, basta un acquazzone per trovarsi nel pantano come a Giochi senza frontiere. Dai locali di comida rapida si alza il fumo del fritto cattivo, quello a taniche di olio del motore. Arepas al colesterolo e salsiccioni tre gusti (porco, bove e tua nonna) sfrigolano su griglie che l’Oms metterebbe fuorilegge, mentre ragazzini di 14 anni impennano in moto a fari spenti nella notte e i fratellini minori imparano a guidare scarrozzando gli amichetti festanti. Dalle case viene musica a palla, dagli alberi carichi cadono mango maturi (e ogni volta tu li schivi per miracolo e pensi a quei 3 euro a vaschetta che spendi all’Esselunga). Giù al fiume, mentre noi passiamo galleggiando sui nostri copertoni innamorandoci dell’effetto infinity pool dove l’acqua dolce incontra il mare, intere famiglie si insaponano, si sciacquano, ci fanno ciao con la mano.
Persino il parco Tayrona, che è pur sempre uno spettacolo di selva e spiagge da conquistare con il sudore della fronte (letteralmente), passa in secondo piano rispetto a Palomino. Dove un wifi che funzioni decentemente non c’è, né l’ombra di un bancomat, o un locale che resti aperto due sere di fila. In compenso abbiamo amache e tramonti, tramonti e amache, e Signo’ (la signora, padrona di casa) che al mattino ci frigge tutto quello che le capita a tiro. Non rischiassimo l’ostruzione delle arterie – peggio, non dovessimo tornare a Milano – resteremmo qui per sempre.