Che si tratti di sei mesi o una settimana, partire è sempre partire. Così ripartiamo, finalmente, Montone, l’ingegnere ed io, grafomane più che mai, tanto che per otto giorni scarsi scriverò tre post, tiè, crepi l’avarizia. Destinazione Georgia: quella caucasica, nota bene, non lo stato americano tra l’Alabama e la Carolina del sud. La patria di Stalin (che è nato qui, a Gori), non dei R.e.m., anche se i R.e.m. ci stanno un filo più simpatici; il luogo dove Giasone venne a cercare il Vello d’oro e Prometeo finì incatenato a una roccia. Aspettative medio-alte per l’ing, che la luma da un pezzo; medio-basse per la grafomane, che nella sua beata ignoranza non se l’è mai filata di pezza. Male, molto male: ché la Georgia, scopriamo, è un paese bellissimo, ricco di natura, storia e formaggio, di panorami che mozzano il fiato e vini che stroncano le gambe.
La partenza è in salita – nebbia fitta e visibilità pari a zero sulla strada verso Kazbegi, nostra prima tappa, dove giù dai tornanti che affrontiamo spavaldi potrebbero esserci castelli o discariche, centrali nucleari, unicorni e t-rex, tanto comunque non li vedremmo. Ma poi le nuvole restano incastrate tra due montagne come un maglione alla maniglia di una porta, e in un attimo il cielo è blu, i prati verdi, le vacche pasciute. Rincuorati, compiamo la prima di tante ascese – questo non è un paese per pigri – salendo a piedi fino alla chiesa di Tsminda Sameba (S. Trinità) a Gergeti, 2.200 metri d’altitudine e il monte Kazbeg innevato sullo sfondo. Il primo giorno si chiuderebbe in gloria se non scegliessimo male la location per la notte, finendo sulle piste da sci di Gudauri, dove, vista la stagione, al posto della neve che ancora non c’è ci sono gli operai che rifanno le strade, i massi per terra e i pali della luce che collassano di traverso sull’unica strada percorribile.
Impariamo presto che la Georgia è un cantiere a cielo aperto, paradiso degli umarell e dell’ingegnere che dell’umarell ha la vocazione. Ma se tanto è in via di costruzione/ristrutturazione, tanto, tantissimo, è in preda allo sfascio, a una lenta, pittoresca decadenza fatta di casermoni d’epoca sovietica, desolati come un’insalata scondita, e vecchie funivie come quella di Chiatura, che sfida le leggi del buon senso e ancora oscilla, pericolante e arrugginita, meraviglioso ultimo baluardo di un passato che nessuno rimpiange.
Così, tra chiese ortodosse emonasteri arroccati, khachapuri indigesti (focaccioni al formaggio con untrilione di calorie a morso) e sorsi d’acquavite di primo mattino, bastano un paio di giorni perché noi tutti, Montone compreso, ci si innamori della Georgia. E il meglio, lo giuro, deve ancora venire. Continua-