Vita notturna? Mangiatevi un khachapuri e poi ne parliamo. Il piatto nazionale georgiano, che si contende il podio con i khinkali, giga-ravioli esplosivi ripieni di carne e brodo bollente, è una bomba multiforme – tonda, a barchetta, a strati – di carboidrati e formaggio, tanto formaggio – dentro, sopra e pure un po’ di lato, talvolta (nella versione ajaruli) con un bell’uovo all’occhio di bue nel mezzo, che al terzo morso inizia a sembrare l’occhio di Sauron. Buono buonissimo, eh, ma pesante come il più logorroico dei vostri amici. Ecco, dopo un khachapuri il massimo che l’ingegnere è in grado di fare è schiantarsi a letto, immobile come una salma e caldo come un termosifone, mentre la grafomane riposa in posizione semiverticale, piangendo lacrime di coccodrillo e chiedendo alla Madonna (chele appare in fase digestiva) perché non l’ha fermata in tempo.
Niente folli notti, insomma. Almeno finché non arriviamo nel Kakheti (che Wikipedia, grazie Wikipedia! traduce Cachezia), la regione del vino, dove il vino è nato, dove il vino invecchia in otri di terracotta, dove il vino scorre a fiumi e non si può rifiutare. Ché qui l’ospitalità è sacra, e se qualcuno ti offre qualcosa guai adire di no. Così se il padrone della guesthouse dove hai passato la notte ti allunga un bicchiere di chacha (acquavite) alle 9 del mattino, prendi e butti giù. Se la degustazione prevede quattro calici pieni fino all’orlo e due shot, taci e bevi, poi entri in un’altra cantina e ricominci da capo. Morale: alle 7:30 di una fresca serata d’autunno la grafomane fa testamento via Whatsapp (lo scoprirà in seguito riascoltando i messaggi), svenendo a letto due ore dopo e rimpiangendo di essere nata per tutto il giorno successivo.
È il queste condizioni – grafomane moribonda, ing già in astinenza da latticini – che arriviamo a Tbilisi, la capitale bella e sorprendente, dove ci aspetta Iyad, il nostro host di couchsurfing, con tre birre e un gruppo di amici pazzi in vena di far festa. Se di giorno giriamo come trottole per vedere in dieci ore tutto quello che c’è da vedere, non riuscendoci e ripromettendoci già di tornare, nelle due sere che abbiamo a disposizione ci dividiamo tra Fabrika, un locale meraviglioso, un po’ berlinese, che vorremmo impacchettare e portarci a Milano, e una festa iraniana dove si balla in terrazza e si beve (ancora) a secchi.
Finisce così in gloria, con la gioia nel cuore e la morte nello stomaco, questo breve viaggio che avremmo voluto più lungo, in un luogo insospettabile per bellezza e varietà, calore e calorie. Ed è subito dieta…