Lasciamo Bishkek e finalmente ci troviamo nel Kyrgyzstan che volevamo. Le auto si diradano, spariscono le case, appaiono prati a perdita d’occhio, colline che sembrano di velluto, montagne innevate sullo sfondo. Da una vallata all’altra il panorama cambia rapidamente, un attimo i pendii sono rocciosi, quello dopo vestiti di boschi. I camion si inerpicano lenti sui tornanti, ai lati della strada spuntano le prime yurte, le tende circolari dei nomadi dell’Asia centrale, vagoni di lamiera su ruote dall’aria meravigliosamente vintage, e decine di bancarelle che vendono miele o korut, palle di latte di pecora solidificato che nel gusto ricordano lo yogurt e nella forma le sfere di Lush da sciogliere nella vasca da bagno.
Dopo dieci ore di auto arriviamo ad Arslanbob, dove sorge un noceto di 11 mila ettari che, secondo la leggenda, fu piantato da un uomo al quale Maometto aveva dato il compito di cercare il paradiso in terra. Lui l’aveva trovato in questa vallata, dove però non c’era neanche un albero: l’aveva riferito al Profeta e quello gli aveva dato un sacco di noci da spargere in ogni direzione. Guidati da Abdul, che mani in tasca e mocassini ai piedi si inerpica per gli sterrati come se passeggiasse in centro, esploriamo il bosco verdissimo, dove per un mese, a fine settembre, tutto il paese si trasferisce per la raccolta, portando a casa un bottino che durerà l’intero anno. “Dovete tornare in autunno”, ci consiglia Husnadin, il padrone della nostra guesthouse in mezzo al nulla, e intanto ci offre noci sgusciate, torta alle noci e vino di noci.
A questo punto commettiamo l’errore fatale di lasciare Arslanbob per Jalal-abad, dove trascorriamo la notte prima del Bayran, la fine del ramadan. Già di suo la città non è granché. Nel 2010 è stata teatro di scontri sanguinosi tra i kyrgyzi e la minoranza uzbeka, che però nel sud del paese è particolarmente presente. Ci sono diverse teorie su cosa fece scattare la rivolta: qualcuno dà la colpa ai fedelissimi del presidente che era appena stato deposto, qualcuno ai fondamentalisti. Fatto sta che Jalal-abad fu messa a ferro e fuoco, molti edifici distrutti e mai più ricostruiti. Ci aggiriamo in auto tra ecomostri di era sovietica mezzi sventrati e fabbriche in disuso, scattiamo foto a cotanta decadenza e intanto cerchiamo invano un posto dove mangiare. Ma è la vigilia del Bayran, come detto, ed è tutto chiuso tranne un paio di fast food di dubbio gusto. Ci sfamiamo, dormiamo, ripartiamo. Non torneremo, ci diciamo. Illusi…