Salutato il buon Zhanibek cominciamo a salire. Come detto, il 90% del Kyrgyzstan sta sopra i 1.500 metri, il 71% sopra i 2.000. Sary-Mogol, a un soffio dal confine con il Tajikistan, ci toglie il fiato, e non perché sia una cittadina di particolare bellezza. Siamo a 3.100 metri e l’ossigeno scarseggia: quando raggiungiamo Tulpar Kul, un’ora di sterrato e 400 metri più in alto, la grafomane rantola come una tabagista. Il lago però è uno spettacolo, il picco Lenin, alle sue spalle, incombe innevato con i suoi 7.134 metri che in pochi (ma non pochissimi) hanno l’ardire di affrontare. Qui, tra i prati verdi punteggiati di yak pelosi e marmotte fischianti, trascorriamo la nostra prima notte in yurta, la tipica tenda dei nomadi dell’Asia centrale. Ah, che poesia! Noi, Montone, la natura incontaminata e grandiosa, la tradizione di un popolo, la vita semplice, le nubi nere all’orizzonte, il vento che ti porta via, un australiano con il berretto e il doppio mento che sorseggia birra davanti alla tenda, dentro la stufa alimentata a sterco di pecora secco che caccia un caldo assassino ma poi si spegne. Ed è subito Antartide, solo più puzzolente.
Non è che l’inizio. Torniamo a Jalal-abad, che abbiamo denigrato e schifato ma ci offre doccia e acqua calda. La grafomane si fa due volte lo shampoo in poche ore. Il mattino dopo, all’alba, diciamo addio alla civiltà. Dieci ore di strada tortuosa, accidentata, a tratti impervia, ci portano verso est, sulle montagne e poi giù, di nuovo su e ancora giù. Di nuovo il panorama cambia sotto i nostri occhi increduli, prima è bello poi lo diventa ancora di più, passiamo dalle Alpi svizzere all’Arizona, dai boschi al deserto, fa caldo, fa freddo, fa fango, l’auto è incrostata di polvere, dai finestrini non si vede più nulla, Google si perde, i cani ci inseguono, le pecore fuggono impazzite. Quando arriviamo a Tash Rabat, caravanserraglio del XV secolo sulla via della seta e monumento più importante dell’intero Kyrgyzstan, mezzo incastonato in una collina a 3.530 metri e circondato dal nulla, siamo stanchi, ma con gli occhi pieni di meraviglia. Puntiamo una yurta vicino al fiume ma accettiamo di buon grado il suggerimento della padrona, che ci offre una camera riscaldata, forse meno suggestiva ma sticazzi, come si dice dalle nostre parti. “Se domani andate a Song Kul vi conviene”, aggiunge sibillina.
Capiamo cosa voleva dire il giorno dopo, appunto, quando sulle rive del lago Song Kul, 3.016 metri, da molti ritenuto il più pittoresco del Paese, veniamo colti da una tormenta di neve che cade in orizzontale, falciandoci allegramente. Depressi ci rifugiamo nella yurta comune con un gruppo di cinesi appena rientrato da un’escursione a cavallo nella bufera. Poi qualcuno grida “Il sole!” come sulle navi si grida “Terra”. Usciamo e lì davanti c’è, come un miracolo, il lago che prima a mala pena vedevamo. Dietro le montage, davanti greggi di pecore e nomadi a cavallo. Pare il set di un film che qualcuno ha preparato mentre noi bevevamo il tè davanti alla stufa, una specie di Truman show in salsa kyrgyza.
Chiaramente la notte è gelida, nella yurta dormiamo vestiti e sepolti sotto coltri del peso del piombo. Il mattino non è da meno. Ma ancora una volta il lago di stupisce. Mentre lo costeggiamo in auto prima di procedere verso nord, le nuvole viaggiano veloci, il cielo si apre, comincia un altro spettacolo di prati verdi, fiorellini gialli, yurte solitarie, acque cristalline. L’ingegnere in versione man versus nature estrae il costume e osa un rapido bagno. Sopravvive per miracolo. Possiamo proseguire.