Due settimane passano in fretta e siamo già all’ultima tappa del nostro viaggio: Issyk-Kul, il secondo lago alpino più grande del mondo dopo il Titicaca, 182 chilometri per 60 a forma d’occhio, a un’altitudine di 1.600 metri circa. Così grande che pare il mare, così calmo che invita a un tuffo, così freddo che anche no, Issyk-Kul ci piace subito per la sua aria rilassata e il clima più mite da quando abbiamo lasciato Jalal-Abad.
Ma spiaggiarsi a prendere il sole con un libro e una birra sarebbe troppo semplice, così nei quattro giorni che trascorriamo in zona facciamo tutto tranne questo. Una volta sola ci proviamo, per la verità, ma il solito fronte di nubi, che ci segue come fossimo Fantozzi, ci fa desistere prima di raggiungere la riva. Nell’ordine, dunque, ci intratteniamo così:
- Ci svegliamo alle 6 e andiamo al canyon di Skazka, noto come Fairytale canyon perché le rocce rossastre creano fantastici castelli che paiono usciti da una fiaba e l’atmosfera è quella di un sogno. È una delle attrazioni più gettonate della zona, ma a quell’ora del mattino ci siamo solo noi, ed è surreale e bellissimo.
- Appaghiamo il desiderio dell’ing di andare a cavallo, nonostante la grafomane, memore dell’esperienza boliviana in groppa al maledetto Churrumino, non sia proprio entusiasta. Questa volta va meglio: i ronzini con i quali ci inerpichiamo sulle montagne alle spalle di Bokonbaevo sono pigri e mansueti, e di andare al trotto, figurarsi al galoppo, non hanno alcuna intenzione. In compenso il paesaggio è pazzesco, verdissimo, percorso da puledri selvaggi che hanno l’aria di essere lì per una pubblicità dell’ente del turismo.
- Assistiamo a una dimostrazione di caccia con l’aquila, altro punto nella wishlist kyrgyza dell’ingegnere. La pratica è antica, i nomadi usavano i rapaci per procurarsi carni e pellicce, l’arte di addomesticare il regale pennuto è senz’altro sopraffina, il tutto molto interessante. Ciò non toglie che quando la bestia alata plana su un ignaro coniglietto, condannato a morte per l’occasione, la grafomane diventa improvvisamente animalista, vegetariana, vegana, e giura di nutrirsi di bacche per il resto della vita.
- Facciamo trekking nella valle Altyn Arashan, alle spalle di Karakol, città principale della sponda sud: 14 chilometri di cui 7 sotto una pioggia torrenziale, in un contesto idilliaco ma assai fangoso. Quando arriviamo al campo dove trascorreremo la notte c’è di nuovo il sole ma noi siamo zuppi e scoprire che in yurta non c’è la stufa non ci fa piacerissimo. Amen. Andiamo alle pozze termali, compriamo tre litri di birra, passiamo la serata più mondana della vacanza con due coppie simpatiche, andiamo a letto per svegliarci in un mattino glorioso senza neanche una nuvola. Gridiamo al miracolo.
- Andiamo a Jeti-Oguz (“sette tori”), bella valle dominata dalle formazioni rocciose che le danno il nome. Dice la leggenda che un marito tradito uccise la moglie al termine di un banchetto: il suo sangue travolse i sette animali, che si trasformarono in rocce rosse. Lì accanto ci sono due speroni giganti separati da una gola, noti come “Cuore spezzato” in memoria di una fanciulla che, ancora secondo tradizione, perse l’amato per mano di un ricco signore che la voleva in sposa. Allegria! (da leggersi con voce alla Mike Bongiorno). Qui la sfiga regna sovrana, ma i locali la esorcizzano con picnic e selfie ai piedi della cascata più affollata di tutto il Paese.
- E poi basta, torniamo a Bishkek per l’ultima cena kyrgyza, a base di plov (riso con carne) e manty, cipollosissimi ravioloni di carne. L’ostello è così brutto che ci struggiamo di nostalgia per le yurte puzzolenti. Ormai siamo nomadi nell’anima.