Visitare la Valle dell’Omo, dove si concentrano alcune delle etnie più interessanti dell’Etiopia del sud, è sfidante. Non per le condizioni di viaggio: le strutture da faranji sono molto jungle-chic, i ristoranti dei lodge offrono qualche alternativa al cibo locale, gli autisti non ti lasciano fare più di cento metri a piedi. Giusto noi amiamo complicarci la vita quel tanto che basta, dormendo in tenda con i ragni, mangiando insalata avvelenata ed eludendo la sorveglianza delle bodyguard (ma di questo diremo poi). Il problema è invece l’equilibrio: quello sottile e fragile, non facile da trovare quando si arriva muniti di macchina fotografica e tanta curiosità in un villaggio dove la gente fa la sua vita e non ci trova niente di strano ad andare in giro con la faccia pittata di bianco o le treccine imbrattate d’argilla. Di rischi se ne corrono a iosa: il primo è quello del safari umano, con il turista che, in preda a rumorosa meraviglia (“OHHHH, guarda!”) e dito puntato, scatta a raffica credendosi un reporter di Life. Il secondo è il raptus umanitario, l’attacco di buonismo che ti porterebbe a toglierti la maglietta per donarla al ragazzino mezzo nudo che te la chiede. Peccato che di ragazzini mezzi nudi ce ne siano trenta e di maglietta una sola. Ogni guida con un minimo di cervello invita a desistere: più il visitatore elargisce doni, più gli autoctoni diventano aggressivi, dando per scontato che un regalo sia loro dovuto. Demiss, il nostro buon autista, e altri dopo di lui ci diranno che molti abitanti dei villaggi sembrano poveri, ma finché hanno bestiame non lo sono in maniera drammatica; che la ricchezza qui non si misura in denaro bensì in capre, buoi e armi (e quelle non mancano mai, e sono fashion come le Louis Vuitton). Con questo non vogliamo passare il messaggio che nelle zone rurali dell’Etiopia si faccia vita da nababbi, perché ovviamente non è così: ma fame e carestia non sono un problema delle tribù che aprono le porte (a pagamento) ai visitatori. E comunque non è regalando caramelle che si risolve qualcosa.
Dopo questa lunga, sbrodolante premessa che la grafomane, in quanto tale, proprio non è riuscita a evitarsi, veniamo a noi. Noi a Turmi, a fare la Parigi-Dakar dei villaggi, a decidere chi ci sta simpatico e chi meno. Ci sono i daasanach, che la nostra smemoratezza trasforma in darsena: bovari e guerrieri, amano scarnificarsi la schiena, le braccia e altre parti del corpo per amor d’estetica, provocandosi cicatrici che attestano il loro status e valore. Il campione, un figo pazzesco alto una testa più degli altri, ne ha pieno il petto: “Una per ogni nemico ucciso”, ci spiegano. Ché qui mica si scherza: quando di notte i kenyoti attraversano il confine per venire a rubare le loro vacche, i daasanach rispondono a colpi di AK47. Né le donne sembrano meno feroci: dritte e fiere, dalla vita in su vestite solo di perline al collo e tra i capelli, ci scrutano con sufficienza, finché il tatuaggio sul braccio della grafomane non attira la loro attenzione strappando un barlume di rispetto.
I karo vivono sulle sponde del fiume Omo, il loro villaggio è tra i meno comodi da raggiungere. Loro però sono maestri nell’arte del body painting, e vederne i corpi decorati d’arzigogoli fatti con qualche pastone d’argilla o gesso vale tutto il viaggio. Anche i giovani in motocicletta che bazzicano in “piazza” hanno il loro perché. Tutto il mondo è paese, villaggio che vai, tamarro che trovi.
E poi si sarebbero i mursi, quelli che si infilano dischi da 10 centimetri nel labbro inferiore e si legnano di bastonate per passare il tempo: un vero highlight per i faranji in gita. Peccato che abbiamo un pessimo carattere, il grilletto facile e poca propensione al dialogo, soprattutto con un Governo che apre sei zuccherifici nel loro territorio pensando di far cosa gradita (ma ai mursi di lavorare in fabbrica frega zero, soprattutto quando possono spillare un sacco di soldi ai turisti semplicemente stando al mondo). Morale, stiamo per partire per Jinka, da dove si raggiungono i loro villaggi, quando arriva la notizia che nella notte c’è stato uno scontro con la Guardia Nazionale: due mursi sono morti e gli altri sono sul piede di guerra. Persino l’ingegnere conviene che è meglio fare dietro front e ripiegare sugli hamer. I quali, per fortuna, ci daranno grandissime soddisfazioni.
CONSIGLI PRATICI Risparmiare Il viaggio in Etiopia non è a buon mercato, a meno che non si abbia un mucchio di tempo a disposizione per muoversi con i mezzi pubblici locali e/o chiedendo passaggi agli altri turisti. Se risparmiare sul trasporto è difficile, si possono tagliare altre voci di costo: a Turmi, per esempio, dove la scelta era tra pensioni economiche a comfort zero e lodge da 130 euro a notte, noi abbiamo optato per la via di mezzo: campeggiare nei resort dei ricchi a 100 euro in meno. La tenda era fornita dalla struttura, così come letti e coperte; i servizi erano in comune ma più che decorosi, i pasti esclusi ma a buon prezzo (come ovunque in Etiopia). L’altro trucco da tenere presente riguarda i voli: chi arriva con Ethiopian Airlines ha diritto a un cospicuo sconto sui voli interni, utilissimi per guadagnare tempo prezioso. Un volo che a prezzo pieno costerebbe 240 euro, scende così a 80. |