Tutto ha inizio con un guidatore di tuc-tuc che ci guarda strano quando gli chiediamo di portarci da Roza Pizza, e un concierge che gli spiega la strada. Stasera dormiamo in uno degli alberghi più belli della città – l’Haile resort, parte della catena aperta dall’ex maratoneta Haile Gebrselassie: una manna dal cielo dopo tre notti in tenda a Turmi – ma di cenare in hotel non abbiamo voglia, né di disturbare Demiss e Abraham che hanno guidato tutto il giorno. Così ce ne andiamo per conto nostro: con dieci minuti di corsa per vie buie e quasi deserte siamo in centro davanti all’indirizzo richiesto. Ce l’aspettavamo diverso: sappiamo che il proprietario è italiano, ma il locale ha un’aria molto locale e ad accoglierci è un etiope fatto e finito, che parla poco inglese e ci porge un menu sospetto, dove figura anche la pizza proibita per eccellenza, quella all’ananas. Però il giardinetto è carino, la serata piacevole, la pizza, quando arriva, effettivamente buona. Solo a fine pasto ci avventuriamo dentro per scoprire se il fantomatico Paolo Dal Corso di cui ci hanno parlato esiste davvero.
Lo troviamo seduto vicino al forno a legna a farsi le birrette con un paio di amici: quando gli chiediamo di raccontarci la sua storia, lo fa senza esitazioni. «Sono nato qui 37 anni fa: mamma etiope, papà sardo», riassume. «Mio padre era l’unico dottore di Arba Minch, ma oltre a quello faceva anche altro: aveva una pompa di benzina, una fabbrica di caramelle, varie cose. Poi è morto, mamma si è risposata e io e i miei fratelli ci siamo trasferiti in Italia, a Bergamo». Paolo all’epoca aveva 16 anni. «Mi sono inserito bene», ricorda. «Ho imparato a fare il saldatore e andavo a ballare. Il Number One [la leggendaria discoteca del bresciano celebre negli Anni 90, ndr] era la mia seconda casa». Mamma intanto era rimasta in Etiopia con tutte le attività ereditate dal primo marito, ma sembrava intenzionata a venderle, così Paolo, anche senza il sostegno dei fratelli, ha deciso di tornare. Altro giro, altro regalo: «All’inizio ho pensato di aprire una discoteca», racconta, «ma non è stata una grande idea. La pizza invece ha funzionato subito: i primi clienti sono stati i soldati della base americana che c’era fino a qualche tempo fa. Il forno? L’ho costruito io guardando i tutorial su internet».
Oggi Paolo è sposato con una ragazza del posto, ha due bambine di sei e un anno, un Maggiolone super vintage e, oltre al ristorante, una guesthouse work in progress. Ricco non lo è ancora diventato, ma di idee ne ha piena la testa. Le realizzerà senza fretta, a ritmo africano. La verità è che va bene così: «Qui ho meno cose, ma più importanti: il tempo di stare con le mie bambine, il fatto che loro non stiano crescendo davanti a una Playstation». Dici poco. «Ma voi dove dormite stanotte?», si interrompe a un bel momento. Glielo diciamo, lui ci chiede come pensiamo di tornare, noi rispondiamo candidi che prenderemo un tuc-tuc. «Dopo le 8 di sera non circolano più, c’è lo stato d’emergenza per i disordini recenti». Ah, ecco perché erano tutti parcheggiati, alle 8 meno 5. «Dopo le 9 non si può più andare in giro a piedi, dopo le 10 neanche in auto». Sono le 10 meno 12 minuti. Con scatto felino Paolo ci carica sul Maggiolone, si lancia sul rettilineo deserto e, pregando che in giro non ci sia polizia, ci deposita davanti all’hotel in tempo record, poi riparte sgommando un attimo prima che inizi il coprifuoco. Il concierge capisce tutto e ride di noi. Faranji sprovveduti…
Se passate da Arba Minch, la pizzeria di Paolo, Roza pizza, si trova vicino alla rotonda grande, proprio accanto alla pompa di benzina. Se non la trovate, chiedete: la conoscono tutti (tranne il guidatore del nostro tuc-tuc).