La cosa più faticosa di tutto il viaggio – più ancora delle notti roventi in Dancalia e della digestione di chili d’injera – è il viaggio da Mekele a Lalibela: trecento chilometri in quasi dodici ore a bordo di un pulmino guidato da un signore gentile ma non proprio audace al volante, con musica etiope a palla che dopo mezz’ora scatena l’effetto Guantanamo e strade che chiamarle strade è una bestemmia alla lingua italiana e all’ingegneria civile. Il paesaggio però è una meraviglia, un susseguirsi di valli e tornanti, di villaggi, campi, persone in movimento e animali fermi a godersi il sole. Ci consoliamo così per lo strazio di buche e dossi, guardando fuori dal finestrino e chiedendoci se mai arriveremo a destinazione.
Arriviamo, sì. E ancora una volta siamo in un altro mondo, in un’altra Etiopia, diversa sia da quella meridionale delle tribù dell’Omo sia dalla Dancalia surreale. Lalibela è il cuore della rotta storica, la più battuta dai turisti: quella che noi trascuriamo per mancanza di tempo. Tocca accontentarsi di un assaggio: un giorno intero di full immersion tra le chiese scavate nella roccia, impressionanti monumenti di fede cristiana ortodossa, la Gerusalemme africana costruita nel XII secolo durante il regno del santo e re che dà il nome alla città. Vuole la tradizione che per scalpellarle nel tufo bastarono 23 anni: un’inezia per questo lavoro titanico, ma pare che ci sia stato lo zampino degli angeli. Oggi c’è quello dell’Unesco, che finanzia il mantenimento delle undici chiese patrimonio dell’umanità ma non del resto della cittadina, sgarruppata e pittoresca con il suo mercato sovraffollato, le strade troppo in salita e minuscoli locali dove bere il caffè e poco altro, gomito a gomito con la gente del posto.
L’Oscar del caffè, però, lo vince Tomoca, ad Addis Abeba. Chissà perché ci aspettavamo una specie di Starbuck’s locale, magari pure con una vetrina di muffin. Ci troviamo invece in una specie di bar sport, al piano terra di un brutto edificio costruito dagli italiani negli anni che furono: dietro al bancone gli addetti riempiono tazzine su tazzine, agli alti tavoli gli avventori consumano in piedi, chiacchierano e sfogliano il giornale, sotto gli espositori di chicchi bruni altri aspettano il proprio turno. L’aria è carica d’aroma, il caffè è il più buono che abbiamo bevuto in due settimane e la grafomane ne vorrebbe a litri. Resteremmo qua tutto il giorno se non fosse che in fondo siamo curiosi di vedere il resto della città, che però non si rivale granché. È domenica, dunque è tutto chiuso, anche il gigantesco mercato di cui tanto abbiamo sentito parlare: il più grande d’Africa e senz’altro uno dei più caotici del mondo. Ci consoliamo con i musei – quello nazionale, dove sono conservati i resti dell’australopiteco Lucy, e quello del Terrore Rosso, in memoria delle vittime del Derg e della sua sanguinosa repressione alla fine degli Anni 70 – e le chiese, in particolare la cattedrale di San Giorgio con i suoi mosaici e dipinti dell’artista Afewerk Tekle (un personaggino che vendeva le sue opere solo a chi gli stava simpatico). L’ingegnere vorrebbe correre avanti e indietro per l’immensa Meskel square, dove le gradinate si estendono per un’intera maratona, ma la grafomane lo convince ad andare a consumare l’ultima cena locale prima di tornare a più nostrani sapori. Così si chiude la nostra avventura etiope: meno impegnativa del previsto, più comoda di quanto pensassimo, ma ricca e affascinante. Decisamente promossa (nonostante l’injera).