A Marrakech ci siamo già stati tutti e tre: la Grafomane dieci anni fa con un’amica, l’Ingegnere e Montone nel 2012, nel corso del loro primo viaggio insieme oltre confine. Ora ci torniamo convinti di trovarla come l’abbiamo lasciata, e invece no. Scendiamo dall’auto e nessuno ci lancia addosso una scimmia per una foto ricordo. Ci incamminiamo verso il riad e nessuno cerca di venderci un tappeto. Percorriamo le strette stradine della Medina e, mentre ci avviciniamo a Jamaa el Fna, rischiamo solo un paio di volte di finire sotto le ruote di un motorino scassato lanciato a tutta velocità. Le vie sono meno caotiche di come le ricordavamo, più pulite, l’immondizia è (quasi) sparita, il caratteristico odore di carogna anche. Ci sono invece piccole boutique, un jazz bar e un ristorante vegano che promette healthy food per tutti. Persino la celebre piazza principale – nella nostra memoria un inferno di fumo che si leva dalle griglie, di fracasso assortito, di incantatori di serpenti, ladri e truffatori, donne armate di henné pronte a tatuarti anche se non vuoi, banchi di frutta secca invasi di api e, in stereofonia, l’incessante richiamo del muezzin – è quasi gestibile: non dico calma, ma non quel luogo dal quale scappare a gambe levate dopo dieci secondi.
Marrakech è cambiata, insomma. L’intero parco taxi è stato rinnovato, lo smog è diminuito, i negozi e le bancarelle hanno abolito le buste di plastica e ora tutti gli acquisti finiscono in borsine di tessuto leggero. La cosa ci sciocca a morte ma non ci dispiace. Passeggiare nel souk senza l’ansia di scansare i venditori non è male. Il suo fascino profondo resta immutato: il dedalo di vie nel quale perdersi, la luce elettrica verso sera, scarsa e gialla, le rughe profonde della gente, i sorrisi imperfetti, gli urti e gli scossoni di chi va di fretta. Non viene offerto un tè ogni due passi, ma di incontri interessanti ne facciamo uno che vale per tutti. Lui si chiama Aziz ed è il proprietario di uno dei mille negozi che vendono cosmetici, olio d’argan, zafferano e spezie. Parla un italiano perfetto con lieve accento veneto perché da 32 anni vive a Treviso, dove importa i prodotti tipici del suo Paese. Da lui compriamo pochi grammi di ambra profumata che, promette, dureranno per sempre; ma per farci a raccontarci la sua storia – solo un pezzetto, per favore – dobbiamo lasciarci convincere a comprare anche il suo olio d’argan, “purissimo, mica come quello che ti rifilano gli altri”, assicura. Lui centellina le informazioni come noi centellineremo il prezioso unguento: “Studiavo ancora quando sono arrivato in Italia, ci sono venuto in vacanza e ho deciso di trasferirmi per cambiare aria”, dice. “All’inizio facevo il falegname”. Poi si è sposato, ha avuto una figlia, si è separato. Oggi sta pensando di tornare a vivere in Marocco, ma chissà: Aziz pensa che sia più interessante spiegarci come riconoscere lo zafferano buono che aprirci il suo cuore. “Magari un’altra volta, con più calma, davanti a un caffè”. La prendiamo come una promessa. Ce ne andiamo con i nostri sacchettini, ci ributtiamo nel souk, finiamo a cenare in un postaccio fuori dal centro, senza menu e senza posate, non proprio un bar vegano dove servono healthy food ma a noi piace così. Il tè alla menta scorre a fiumi come l’alcol nei peggiori bar di Caracas. Brindiamo alla nostra, ad Aziz, a Marrakech che cambia forma, ma non delude mai.