Di Venezia ricorderemo soprattutto la luce. Quella che si tuffa nei canali, accende l’acqua di bagliori, muove i riverberi. La luce accecante del sole che scende nel Canal Grande mentre ce ne stiamo seduti per terra, su un molo di legno, a bere uno spritz al Remer, un posticino nascosto con una vista da piangere. O in piazza San Marco vuota di turisti, alle otto di sera del solstizio d’estate, con il giorno che non vuole finire e le ombre che danzano sulla Basilica, sulla facciata rosa del Palazzo Ducale. E ancora, la luce del mattino a Burano, accecante, un incendio che divampa sulle case variopinte dell’isola dei merletti.
Venezia nell’estate del covid-19, deserta come non l’avevamo vista mai, è bella come una donna fragile, generosa con noi che invece siamo lì e non vorremmo più andarcene, pronti a perderci per sempre tra le calli, ché perdersi è inevitabile, persino per l’ingegnere e per il suo gps. Dormiamo a Cannaregio, il sestiere – non quartiere, perché la città è divisa in sei – del ghetto ebraico più antico d’Europa (risale al 1516 e sì, idealmente è quello di Shylock, il Mercante di Venezia shakespeariano). Qui di sera tanti veneziani e pochi forestieri si riversano nei bacari, i baretti dove si beve vino (troppo) e si mangiano cicheti (buoni), la versione veneta delle tapas. Di giorno, capita di trovarsi da soli tra le calli, il silenzio rotto soltanto da una barca a motore che passa e sfreccia via.
Vaghiamo, ci perdiamo, scopriamo antri, chiese, anche un ponte senza sponde che è unico in laguna, gemello di quello che a Torcello, secondo la leggenda, il diavolo avrebbe costruito in fretta e furia in una sola notte. Ci crucciamo sulla toponomastica locale, un dedalo di campi, campielli, corti, salizade e fondamenta, di sotoporteghi, rii e rive. Prendiamo il vaporetto, prendiamo un gelato, prendiamo uno spritz ogni volta che “guarda che bello quel locale”, “guarda quanti veneziani ci sono qui”, “guarda che manca ancora mezz’ora al tramonto, beviamone un altro”. Lavoriamo anche, visto che siamo qua a sperimentare lo smart working, quello vero, così smart che abbiamo dovuto caricarci (in moto) tutta la postazione ufficio della grafomane, con tanto di monitor 22 pollici che pare un Tv color con tubo catodico. Ma va bene lo stesso, va benissimo, pur di far colazione al sole sul davanzale, fare le call dai canali, andare a correre (l’ing) la mattina tra le calli, quando in giro c’è giusto la barca che ritira l’immondizia. Quattro giorni così ci fanno male al fegato ma bene al cuore e agli occhi, ce li riempiamo di bellezza e di amore per questa città visitata tante volte, eppure sempre di sfuggita, sempre nella ressa, sempre “vabeh, andrà meglio al prossimo giro”. Quattro giorni così ci rimettono al mondo dopo mesi di lockdown. Ne avevamo bisogno. Datecene ancora.
Correre a Venezia 10 chilometri tra canali , ponti e gradini Allenarsi a Venezia è un magnifico supplizio. Magnifico perché correre tra i canali ha un fascino indescrivibile e surreale, in particolar modo la mattina presto quando in giro non c’è ancora nessuno. Un supplizio perché è impossibile fare 500 metri senza imbattersi in un ponte, in una scalinata, in un vicolo cieco che dà su un muro o direttamente dentro un canale. Ma se non siete troppo in hangover dalla sera prima e riuscite a superare la pigrizia, ecco uno spunto per un itinerario di dieci chilometri (e un numero imprecisato di gradini) che tocca alcuni dei principali punti d’interesse della città, da San Marco alla Biennale passando per Rialto, l’Accademia e le meno noti calli di Cannaregio. Buona corsa! |