Andar via da Trieste non è facile, è uno di quei posti da dove parti e hai già nostalgia, dove vorresti tornare prima ancora di essere lontano. Ma basta poco a distrarci. Un’ora di strada e siamo al confine con la Slovenia. Non ci sembra vero: è da marzo, da quando siamo rientrati dall’Oman ed è scattato il lockdown, che non mettiamo piede fuori dall’Italia. Superare la linea invisibile tra il nostro Stato e l’Altro ci fa un effetto strano, ci sembra di aver conquistato la Luna anche se le montagne sono le stesse, è lo stesso l’Isonzo che scorre nelle gole tra le Alpi Giulie. Niente, siamo ubriachi di ossigeno e di libertà, drogati di sconfino, se qualcuno non ci ferma daremo gas fino al Giappone.
C’è il sole, la strada è un luna park di tornanti, il fiume è di un color smeraldo che pare ritoccato con Photoshop. Arriviamo a Kobarid (Caporetto) e mentre scarpiniamo verso le cascate ripassiamo la prima guerra mondiale, il generale Cadorna, la disfatta che l’ha reso celebre e ha fatto di lui un toponimo di tante città. Poi torniamo in patria e l’ingegnere capisce finalmente il senso dell’espressione “pisciatoio d’Italia” con la quale spesso la grafomane identifica il Friuli. Le nuvole, due gocce, tre, poi il diluvio. Prima di Fusine ci dobbiamo fermare perché cade a secchi. Ai laghi però ci andiamo lo stesso e facciamo bene. Anche se è arrivato l’autunno, il più piccolo dei due bacini resta – la grafomane lo dice da anni – uno dei luoghi più affascinanti e suggestivi d’Italia, bello da far scendere le lacrime. Anche oggi, anche così. I sentieri sono deserti, la terra umida, il pelo dell’acqua mosso appena dalle gocce che vanno però diminuendo. Sotto la superficie affiorano tronchi d’alberi abbattuti, spettrali come corpi d’annegati. I colori, il silenzio, i riflessi. Le nuvole nel lago, la luce del sole nascosto, il verde impossibile del sottobosco. Lasciateci qui per sempre (ma portateci una birra).
Ripartiamo e cominciamo a rimbalzare su e giù per la Carnia. Dormiamo ad Arta Terme, pranziamo a San Daniele, per cena siamo di nuovo su, verso il confine austriaco dove Ilaria Tuti ambienta Fiore di roccia (da leggere). Sappada è una piccola bomboniera fuori dal tempo, le case di legno, i balconi fioriti, le cime alte tutto attorno. Il paesello è un’enclave linguistica, un’isola tra le montagne dove si parla ancora il dialetto tedesco dei primi abitanti, fatti arrivare qui nell’XI secolo dal patriarca di Aquileia. Saliamo. Conquistiamo il monte Chiadin con quattro chilometri di camminata, 800 metri di dislivello e molti litri di sudore, per le sorgenti del Piace bariamo e usiamo la moto. Di nuovo, vorremmo rimanere e invece ci tocca andare. Lasciamo qui un pezzetto di noi. Torneremo, promesso: non aspetteremo un altro lockdown. L’ingegnere non ha ancora assaggiato il frico…
Nadia
August 11, 2020 @ 19:03
Posti ricchi di storia e tradizioni. Questa estate italiana ci sta facendo scoprire angoli davvero suggestivi.
Giorgio Ghezzi
August 11, 2020 @ 20:42
Diciamo che è una buona scusa per visitare qualche posto vicino che in genere viene sempre messo da parte 🙂