È passato qualche anno dal nostro viaggio in Georgia ma, a parte quella sera nella regione dei vini del Kakheti, di cui dopo la seconda degustazione non conserviamo memoria, il resto ce lo ricordiamo come fosse ieri: le vette, i cieli azzurrissimi, il khachapuri con tanto di quel formaggio che basta la parola per sballarti il colesterolo. Così quando scopriamo che a Oslavia, nel Collio friulano – quello famoso per la Ribolla – c’è un produttore di vino che usa l’antichissimo metodo georgiano delle anfore di terracotta interrate lo cerchiamo subito per farci spiegare come gli sia venuto in mente. Lui si chiama Josko Gravner e la sua è una lunga storia: a noi la racconta la figlia Mateja, ché «a papà il vino piace farlo, non spiegarlo». Sta bene: a ciascuno il suo mestiere.
Josko, dunque. Il nome è sloveno perché siamo proprio sul confine – la tenuta Gravner ne è tagliata in due, alcuni terreni sono di qua, altri di là – e la famiglia appartiene alla minoranza slava della regione. «Quando il mio bisnonno comprò la casa e le terre attorno, nel 1901, la zona era ancora impero austro-ungarico, la parte più meridionale, quella che mandava a Vienna le primizie del sud», esordisce la nostra narratrice. «Le guerre mondiali hanno ridisegnato tutto. Con la prima siamo diventati Italia, con la seconda un po’ e un po’». Il che con le anfore georgiane c’entra ancora poco, ma molto c’entra con lo spirito di questa gente nata irrequieta, sempre in movimento, che «da una parte ci dicevano: “Tornate di là, fascisti”, e dall’altra ci cacciavano come comunisti».
Intanto gli anni passano, la società cambia. Se prima conveniva coltivare frutta, a un certo punto non conviene più – dagli Anni 60 le campagne si svuotano, sempre più donne vanno all’università, la manodopera diventa carissima – così i Gravner si concentrano sul vino. Josko cresce, impara l’arte da suo padre e nel 1973, quando ha vent’anni, prende in mano l’azienda. E fa la rivoluzione. «Mio nonno gli aveva insegnato che qualità e quantità non vanno mai d’accordo», spiega Mateja. «Ma lui credeva nelle nuove tecnologie e cominciò a sperimentarle tutte, a partire dalla fermentazione in acciaio, per produrre vino buono e abbondante». L’entusiasmo però dura poco. Josko non è convinto, nell’acciaio il vino non respira, ogni innovazione nasce ed è già vecchia. Torna alle barrique di legno, riduce il numero di bottiglie, è uno dei primi a Oslavia a praticare il diradamento, il metodo che prevede di buttare parte dell’uva quando è ancora sulla pianta – uva buona, in perfetto stato – perché quella che resta maturi al top. «Uno scempio per chi, come in queste zone, ha sofferto la fame». Va persino in California, che negli Anni 80 è l’Eldorado dei nuovi vini, ma ne torna deluso, disgustato da quei prodotti pieni di additivi che a lui ricordano tanto i cocktail. È a questo punto che si mette a studiare la storia della vinificazione e scopre il metodo delle anfore, il più antico al mondo, risalente a ottomila anni fa e oggi patrimonio Unesco. «Nel 1996, due grandinate micidiali distrussero in due giorni l’intero raccolto», ricorda Mateja. «Con quel poco che si salvò, papà fece le prime prove di macerazione alla maniera georgiana, senza controllo della temperatura». Il risultato lo convince, sa di uva buona. Peccato che i recipienti adatti non si trovino al Leroy Merlin dietro casa. Si tratta di vasi da tremila litri, con pareti sottilissime, dai 3 ai 5 centimetri, che persino in Georgia sono difficili da reperire perché a farli sono pochi artigiani specializzati. Ma Gravner conosce alcuni georgiani, arrivati in Slovenia per sfuggire ai disordini degli Anni 90, quando l’Urss si era appena dissolta e il Paese, fresco d’indipendenza, era dilaniato da disordini interni, corruzione e criminalità. «Uno di questi amici gli procurò la prima anfora – piccola, da 250 litri appena – e lo aiutò a organizzare il viaggio nell’ex repubblica sovietica per andare a prenderne altre». È il 2000 quando Josko riesce a ottenere il visto: per dieci giorni va in giro su mezzi blindati, con una scorta armata al seguito. Compra undici anfore, di cui nove arrivano a casa rotte. Ma lui non si perde d’animo e l’anno dopo torna a fare una nuova scorta. «Ne ha acquistate oltre cento per averne, oggi, 47», dice la figlia. «Lì dentro l’uva fermenta lentamente, ci vogliono più di tre mesi rispetto ai 12-14 giorni del metodo standard. La temperatura è mantenuta costante dal terreno: non c’è bisogno di refrigerazione, quindi nemmeno di energia». L’unica cosa che serve è la pazienza: il vino dei Gravner passa un anno in anfora, poi ne invecchia altri sei in botti di legno: «Così si ripulisce da solo di tutti i sedimenti e quando lo imbottigliamo è limpido anche senza essere filtrato». Limpido ma di colore intenso: «Per questo li chiamano orange wines, vini ambrati. Un nome che esiste solo dal 2004: prima si pensava che fossero vini sbagliati, difettosi, perché non hanno particolari sentori di frutta e fiori. In realtà hanno molti vantaggi: la loro semplicità, per esempio, li rende estremamente digeribili e, se serviti alla giusta temperatura – mai freddi ma a 12-16 gradi – si abbinano con ogni piatto». In Italia oltre ai Gravner sono in pochissimi a produrli – «Altri usano le anfore ma di questi la maggior parte preferisce quelle spagnole, più piccole, più spesse e non interrate» – e anche in Georgia si è ripreso a farlo solo di recente. A proposito della Georgia, Josko c’è più tornato? «Sì, ma ha un po’ nostalgia del Paese che ha conosciuto all’inizio, prima dell’occidentalizzazione: molto più confusionario, ma proprio per questo anche più vero e affascinante». Un po’ come lo ricordiamo noi, insomma, ma all’ennesima potenza.
Visitate il sito di Gravner: www.gravner.it
Per le foto ringraziamo Studio Cru.