E poi una mattina ti svegli e ti chiedi cosa stai facendo a Milano quando potresti lavorare ovunque, ché tanto ti bastano un computer, una sedia e un wifi. Così compri un volo per Fuerteventura, l’isola dell’eterna primavera, meta furba perché all’arrivo non è richiesta quarantena, fai un tampone, la valigia e ciao. Torni in aeroporto dopo mesi, rivedi Orio al Serio e ti pare bello come il Taj Mahal, passi i controlli di sicurezza e ti scende una lacrima manco stessi guardando Ghost alla Tv, atterri in un’altra nazione e nella tua testa attacca la musica di Momenti di gloria con una pioggia di coriandoli.
Così, a metà aprile, comincia il nostro mese canario, che poi diventerà un mese-e-mezzo-quasi-due, ché come tutti prenderemo la posticipite, quella malattia che ti fa stracciare i voli di ritorno e procrastinare all’infinito. Ma di questo diremo poi. Intanto siamo qua, Ingegnere, Grafomane e Montone, con 25 gradi, il sole, un appartamento con terrazzo e la spiaggia di là dalla strada, i ristoranti aperti la sera e tante, tantissime cose da fare. Le restrizioni ci sono, le mascherine anche, ma l’allerta Covid scende di settimana in settimana, da 3 diventa 2 e poi 1, il coprifuoco si allunga e poi scompare, si aggiunge un posto a tavola, poi un altro e un altro ancora. Qualcuno che fa le feste con 80 persone c’è, i rave nel deserto pure, ma noi meniamo vita tranquilla e ci godiamo questa normalità riconquistata dopo un anno e mezzo di stenti. Di giorno si lavora: la sveglia suona presto perché le Canarie sono indietro di un’ora, ma alle 5 ora locale cade la penna e noi abbiamo tre ore e mezza di luce – e che luce, una luce da perderci la testa verso sera quando il sole scende e rende tutto più morbido – un tramonto da sorseggiare in riva al mare, tapas e birra a profusione e poco prezzo, e chissenefrega se la birra spagnola è peggio dello Svelto, mica si può avere proprio tutto. Come noi, centinaia di altri: Corralejo, nel nord dell’isola, è vuota di turisti ma piena di smart workers, di nomadi digitali ormai abbronzati e con i capelli lunghi, che di giorno fanno le call dal bar sulla spiaggia, di pomeriggio vanno a surfare e di sera escono con la divisa d’ordinanza: braghette, felpa col cappuccio e infradito. Noi siamo al luna park, godiamo come ricci di ogni cosa che facciamo. Persino ordinare la spesa al contadino, che ci porta a casa una cassetta piena di ortaggi sconosciuti che dobbiamo cercare su Google, è una gioia. L’ingegnere si dà al kite e, a parte la prima volta che vomita in gommone per tutto il tempo e torna a casa verde come una Granny Smith, si diverte un mondo. La grafomane prende lezioni di cerchio aereo da un’acrobata del Cirque du Soleil, si riempie di lividi, partecipa ai workshop sulla spiaggia e si crogiola al sole come un geco, elettrizzata dall’inconsueta doratura assunta dalla sua pelle. Conosciamo persone: un’attività che ci mancava da tempo. Menestrelli, filosofi, affaristi, diplomatici dell’Onu, persino il sosia di Gesù Cristo, che si aggira in paese a piedi nudi con una coperta sulle spalle, offrendo massaggi e opportunità di business. Altre ne ritroviamo, spinte come noi dal caso su quest’isola felice. A tratti arriva qualcuno dall’Italia a dirci ciao, ad assaggiare questa bella vita che tutti meriteremmo di fare. Li portiamo al Gilda, dove Carletto tiene il tavolo dalle 3 del pomeriggio e James (“ooooh, James”, da cantarsi stonatamente su musica di timple, l’ukulele canario con una corda in più) si arrabbia perché gli diamo troppo da lavorare. Ci guardiamo paciosi, sempre più abbronzati, dimentichi della vitavera che a casa abbiamo messo in stand-by. Ci chiediamo a vicenda: «Ma tu quando parti?» e già sappiamo la risposta. «Sabato, ma mi sa che il volo non lo prendo e resto ancora per un po’».
Si ringrazia Luca, buon amico e viaggiatore che per primo ci ha messo la pulce nell’orecchio sull’opportunità di volare alle Canarie. Forever in your debt!