Dopo tanto smart working a Fuerteventura – duro lavoro vista mare, con terribili pause pranzo in terrazzo e aperitivi al tramonto – una vacanza ci vuole. Così traghettiamo verso Lanzarote, dove ci ricongiungiamo con due amici arrivati dall’Italia e per una settimana prendiamo possesso di una villa con piscina a due passi dalla playa de Los Pocillos. Il paesino è deserto: i ristoranti sono stati falcidiati dal Covid, il lungomare è un cimitero di insegne e vetrine vuote, e al supermercato tutto ha un aspetto un po’ vintage, pure il latte, che difatti è scaduto da due giorni. Non ce ne facciamo un cruccio. La spiaggia è infinita e bellissima come poche altre, lunga come le passeggiate al mattino quando gli altri ancora dormono, l’acqua inspiegabilmente calma e scintillante anche quando il vento si scatena. Prendiamo l’auto e andiamo in giro, ci stupiamo a ogni curva perché, anche se siamo soltanto a quaranta minuti di barca da Corralejo, il paesaggio è di un altro pianeta: al posto dell’ocra della sabbia, al blu del mare s’accompagna il nero della lava, punteggiato di un verde che non eravamo più abituati a vedere e del bianco delle case basse così diverse dagli ecomostri di Fuerte. Il merito è di César Manrique (1919-1992), l’architetto che ha salvato l’isola dalla bruttura con un piano regolatore che ha tenuto a bada la speculazione edilizia e integrato nel paesaggio i nuovi edifici, sorti con il boom turistico degli ultimi anni. Morale: Lanzarote è una carezza in quattro colori, un gioiello da rigirarsi tra le mani, da esaminare da ogni lato. Le calette di Papagayo, a sud, dove si scende e il vento sparisce magicamente, la spiaggia di Famara popolata di surfisti, la deserta Tenesar schiaffeggiata dalle onde, dove qualcuno ha messo un tavolo sulle rocce e verrebbe voglia di stare lì ore a guardare l’oceano arrabbiato, se l’oceano arrabbiato non ti prendesse e non ti portasse via. E le vigne, commoventi come tutto ciò che lotta per vivere, schermate da muretti semicircolari che il contadino tenace ha costruito, regolari come un pied de poule, per proteggerle dalle raffiche feroci. I cunicoli della Cueva de los Verdes, i vulcani di Timanfaya che paiono eruttati l’altro ieri, le opere di Manrique, che ormai è il nostro eroe, dal Giardino dei Cactus con 1.400 specie diverse al Jameos del Agua con la sua grotta e il suo laghetto pieno di granchi albini e ciechi. E ancora Teguise, pigra per forza, impaziente di ripopolarsi quando il mercato della domenica tornerà quello di una volta, le cittadine che non fanno in tempo a iniziare che sono già finite, i baretti dove solo gli anziani giocano a carte e due turisti, sparuti e sperduti, sembrano lì per caso, ma visto che ci siamo almeno beviamoci una caña, poi un’altra, e magari un’altra ancora. Tanto costa poco, tanto siamo in vacanza.