I viaggi intercontinentali ci mancano, ci mancano come l’aria: quei voli interminabili durante i quali l’ingegnere si vede sei film, le valute che la grafomane non sa convertire, i sapori mai provati prima, le lingue incomprensibili di cui ci sforziamo sempre di apprendere le espressioni fondamentali: “Ciao”, “grazie”, “una birra, per favore”. Ma tutto sommato viviamo nel Paese più bello del mondo, dunque, finché spostarsi non è ancora agevolissimo a causa del Covid, tanto vale approfittarne: prendere la moto e colmare quelle lacune mai colmate «ché tanto c’è tempo, prima o poi ci andremo». La prima non è geografica ma esperienziale: un weekend in barca a vela alle Cinque Terre per vedere se l’ing sopravvive al mal di mare e la grafomane agli spazi ristretti, mentre tutti cazzano la randa e lei vorrebbe solo stare ferma a prendere il sole. La missione è compiuta: lui barcolla per 48 ore dopo lo sbarco ma forse è colpa più del vino che delle onde. Non sapendolo per certo, ci riserviamo di mistificare e proseguiamo per Lucca, che si rivela un gioiello proprio come ce l’hanno descritta: piccola, preziosa, acciottolata, con un alito di vento fresco che verso sera si insinua miracoloso tra i vicoli e ci solleva dall’afa del pomeriggio. Ne amiamo la luce al tramonto che accende le chiese, i ciuffi d’alberi sopra la torre Guinigi, gli edifici affacciati come spettatori su piazza dell’Anfiteatro, la sorpresa di scoprire – che caso, che meraviglia – che l’elegante Palazzo Pfanner fu, tra Otto e Novecento, sede del primo birrificio del Ducato. Non restiamo a lungo, giusto il tempo di decidere che torneremo. Proseguiamo invece per Pisa, dove c’è una torre pendente da salvare: dopo 42 anni di vita, anche la sottoscritta può finalmente dire di averla sorretta con una mano, almeno per quel tanto che basta a scattare una foto. Una sosta al murales di Keith Haring, ultima opera pubblica dipinta dall’artista prima di morire, e via: poche ore dopo siamo già all’Argentario, affascinati dal paesaggio ma un po’ meno dalla camera d’albergo che, seppur strapagata, si rivela essere un sottoscala con vista sì, ma su un orrido cavedio. Confesso un’irritazione di fondo che stenta a passare: bel posto, eh, bellissime le calette che si guadagnano a piedi scendendo tra gli alberi, splendido il colpo d’occhio dall’alto, ma perché ve la tirate così tanto se poi le strade sono dissestate come quelle del Vietnam? E soprattutto, possibile che con tutti i soldi che spillate ai turisti non ve ne avanzino per una segnaletica adeguata, che eviterebbe a ignari motociclisti di rischiare la morte? Ogni riferimento al pessimo paio d’ore che passiamo sobbalzando tra le buche, e al mal di schiena che ne consegue, è ovviamente, puramente casuale.
La tappa successiva è il Lazio, ma di quello diremo poi. Qui chiudiamo con un cenno a Ravenna, dove ci fermiamo qualche giorno più tardi, ormai di ritorno verso nord. I mosaici li visitiamo avvolti da una bolla di caldo che quasi ci uccide: prossimi all’allucinazione, non capiamo se a farci girare la testa è un’overdose di meraviglia o il calo repentino di pressione combinato alla digestione lenta della piadina prandiale. Ma anche questa è fatta, entrambi possiamo spuntare la casella dell’esperienza bizantina. L’ing aggiunge al carnet anche un aperitivo sulla spiaggia di Marina, dove la grafomane già imperversava nei suoi anni migliori: tornarci è l’equivalente di un viaggio del tempo. Che non sarà un intercontinentale, ma poco ci manca…