(Consigliamo di leggere questo post ascoltando “Paris” degli Après la classe oppure, meglio ancora, “Pont Mirabeau” dei Pogues, che è bellissima come la poesia di Apollinaire di cui traduce il testo)
Raccontare Parigi è ardito, presuntuoso, decisamente superfluo. L’hanno già fatto in tanti, e tutti più bravi di me: dai poeti stonati d’assenzio a Woody Allen, pittori, filosofi, musicisti, compilatori di guide turistiche: un infinito assortimento di flâneurs impossibile da passare in rassegna. Chi sono io, umile Grafomane, per aggiungere qualcosa a una letteratura di secoli? Chi è l’Ing per tentare l’assalto al regno di Cartier-Bresson? Parigi è una di quelle città – un po’ come New York, dove il fumo esce davvero dai tombini – che si conoscono a memoria prima ancora di metterci piede, che si imparano per osmosi fin dall’infanzia, dove basta chiudere gli occhi, anche a migliaia di chilometri, per sentire il profumo di baguette appena sfornate e croissant burrosi e la musica, una playlist che spazia da Edith Piaf alla colonna sonora di Amélie. Paris-Paris è il luogo dei luoghi comuni, della Gioconda e della Tour Eiffel, degli artisti sulla Butte Montmartre e dei bouquinistes sul Lungosenna, dei bistrot pieni di gente a tutte le ore del giorno. E di Charlie Hebdo, delle banlieues, di Notre Dame in fiamme e del Bataclan, ché uno ci prova a dimenticarli mentre è lì a ubriacarsi di bellezza, ma non c’è verso di riuscirci, le cicatrici sono a vista e ignorarle sarebbe bieca follia.
Ma dicevamo dei luoghi comuni. Funziona così: la prima volta che si viene a Parigi, è un dovere spuntarli tutti, uno per uno da una lunga check list. Arco di Trionfo: visto. Rue de Rivoli: camminata. Monna Lisa: salutata. Boulangerie: svaligiata. In tre giorni è proprio quello che facciamo, ché della Ville Lumière l’Ing è quasi vergine. Io no, io ci sono stata così tante volte che per me tornare è fare un viaggio nel tempo. Entro a St. Eustache e ho dieci anni. Sono in vacanza con i miei genitori, fuori piove, dentro c’è odore d’incenso e qualcuno sta suonando l’organo. Su a Montmartre, in piazza, di anni ne ho venti e mi sono appena fatta spennare in un ristorante turistico dove oggi non metterei piede nemmeno sotto minaccia. Tra Anvers e Pigalle torno matricola universitaria, ritrovo le strade – io che mi perdo anche a Milano – attorno all’appartamento dove ogni sera Nathalie, la mia coinquilina francese, mi sfinisce di zouk, la musica delle Antille che tanto le piace. È tutto uguale, è tutto cambiato. È la mia Parigi, che è diversa da quella dell’Ing e del resto del mondo. A lui provo a farla assaggiare: chissà se gli piace, o se preferirebbe un altro pan au chocolat, une assiette de fromage.
E intanto aggiungo memorie alle memorie, per ritrovarle alla prossima visita: un giro in motorino sugli Champs Elysées, una birra tra i murales di Belleville, la scoperta di un nuovo quartiere, quel negozio terribile con gli animali impagliati, una via nascosta che mi ricorda Berlino, due ragazzine che si consigliano libri da Shakespeare and Company mentre a me viene da piangere, perché le librerie ogni tanto mi fanno questo effetto.
Mattoncino dopo mattoncino, Parigi è sempre più immensa.