Gita a Napoli: pizza, pizza, Pompei, ancora pizza. E poi Paboy. Meglio della pizza, per certi versi pure più emozionante degli scavi archeologici. Perché Paboy ha una storia pazzesca e ce la racconta di persona, mentre taglia la stoffa per l’ennesimo cuscino e la passa sotto la macchina da cucire con i gesti esperti di chi lo fa da sempre.
Paboy Bojang è una stella nascente del design d’interni. Ha 28 anni, da nemmeno due fa cover per cuscini che vende online e che piacciono un po’ a tutti, pure a Paul Smith – che difatti gliene ha commissionati un tot per un’edizione limitata da 160 sterline al pezzo. Wow, insomma. Ma questo è il capitolo più recente della sua vita avventurosa-non-per-scelta. Prima, ce ne sono altri ben più cupi. Paboy è nato in Gambia, giusto in tempo per crescere durante il regime dittatoriale di Yahya Jammeh, rimasto al potere dal 1994 al 2017. Da bambino avrebbe voluto fare il calciatore, ma manco a parlarne: la sua famiglia non nuotava nell’oro, papà non c’era più e così a 13 anni lui è stato mandato a lavorare nel laboratorio dello zio sarto a Serrekunda. «Dopo un po’ ha cominciato a piacermi», dice. A 19 anni, però, decide di partire. Il suo Paese è poverissimo, soffocato dal regime. Lui, come tanti altri, guarda all’Europa come alla salvezza. Così si mette in viaggio da solo, senza sua madre e i fratelli. È un’odissea. Gli ci vogliono due anni per sbarcare a Lampedusa: due anni pigiato sui bus con tanti, troppi altri, e poi a piedi e di nuovo in bus, attraverso il Senegal, il Mali, la Libia, un check point dopo l’altro. Quando racconta della traversata del Mediterraneo, del gommone che imbarcava acqua, delle persone che un attimo c’erano e quello dopo non c’erano più, negli occhi gli leggi che è come se fosse ancora lì, in mezzo a quell’incubo.
Dunque, Paboy sbarca a Lampedusa. È il 2015. Dovrebbe prendere un autobus – l’ennesimo – per Milano, invece sale su quello per Napoli, dove chiede asilo come rifugiato. «Mi incuriosiva la sua fama di città criminale», spiega, e chissà se scherza oppure no. Tant’è. All’inizio non se la passa benissimo, è in un campo profughi dove dormono in 75 in una stanza, la sua famiglia è lontana, forse – ma questo lo ipotizzo io – a volte si chiede se non era meglio restarsene in Gambia. Poi incontra Sophia, una giornalista che gli dà una mano a trovare un impiego. Per cinque anni lavora in una fabbrica di ceramiche, ed è felice «perché fare cose con le mani mi è sempre piaciuto». E forse sarebbe ancora lì se gli intoppi burocratici nel rinnovo del permesso di soggiorno e la pandemia non avessero costretto i datori di lavoro a licenziarlo. È a questo punto, però, che la fortuna gira davvero. «Durante il primo lockdown, ero chiuso in casa come tutti senza poter far niente. Mi annoiavo ed ero depresso. Poi un giorno Sophia mi ha portato una macchina da cucire e alcuni scampoli di stoffa e mi ha detto: “In Gambia facevi il sarto, perché non ricominci a cucire per passare il tempo?». Paboy le dà retta, si mette a fare federe per cuscini. Super colorate, con le ruches come gli abiti tradizionali delle donne del suo Paese nei giorni di festa. Con Sophia crea un account Instagram, posta qualche foto e boom: iniziano a sommergerlo di messaggi e, quel che più conta, di ordini. «Speravo giusto di guadagnare qualche soldo. Certo non mi aspettavo questo successo», ammette. «Ancora non mi capacito dell’affetto che mi ha dimostrato la gente».
Oggi Paboy ha due collaboratori, ché gli ordini sono troppi per starci dietro da solo. Ebraim è gambiano come lui, Blessed nigeriano: insieme cuciono una ventina di pezzi al giorno in un laboratorio dove ci stanno giusto loro con le rispettive macchine da cucire. Non è un caso che anche gli altri siano rifugiati: «Vorrei espandere l’azienda per dare sempre più opportunità di lavoro ai migranti», spiega Bojang con piglio imprenditoriale. «Io sono stato fortunato, mi hanno aiutato in tanti. Non a tutti va altrettanto bene». E infatti giù in strada è pieno di ragazzi che di occasioni non ne hanno avute mai. Per un Paboy che ce la fa, quanti altri si riducono a chiedere le elemosina? Ce lo domandiamo noi, senz’altro se lo domanda anche lui. Ma poi sorride, torna a parlare di quanto gli piace cucire, trovare nuove combinazioni di colori. E di quanto è bella Napoli con la sua architettura, con gli spritz da bere in compagnia degli amici. Il mondo continua a essere crudele e imperfetto. Ma che meraviglia ascoltare una storia a lieto fine, una volta ogni tanto.
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