Non è facile scrivere questo post. E non perché sul deserto algerino ci sia poco da dire, anzi. Ma il deserto algerino ci ha lasciato senza parole e senza fiato, e qualsiasi cosa io mi inventi per descriverlo, per cercare di raccontarlo a parole, non sarà che una pallida eco delle emozioni che ci ha fatto vivere. Quindi prendo tempo, e prima di addentrarmi nel bla bla bla, rispondo a tre domande che mi autopongo alla Marzullo, e che sono le stesse che mi sono posta io prima di partire:
1 – No, l’Algeria non è pericolosa. Lo è stata in un passato non troppo lontano, durante il “decennio nero” iniziato negli Anni 90 e che in realtà è durato ben più di un decennio: anni di guerra civile tra Governo militare e miliziani islamici, un’escalation di violenza, terrorismo e paura che ha ridotto il Paese allo stremo e fatto passare ai turisti qualsiasi desiderio di visitarlo. Ancora oggi il sito della Farnesina lo fa sembrare una polveriera e sconsiglia i viaggi nelle zone di confine con la Libia, il Niger, il Mali e il Marocco; ci sono aree chiuse ai turisti stranieri e altre dove è necessaria una scorta armata. Ciò detto, là dove siamo stati noi – nel Sahara a sud di Djanet, in quella zona che si chiama Tadrart – problemi di sicurezza non sembrano essercene: la guida locale è d’obbligo (altrimenti voglio vedervi a trovare la pista tra le dune) ma i gendarmi no, e la percezione di rischio che si ha, su una scala da uno a dieci, è circa zero.
2 – No, sei giorni nel deserto non sono troppi. Non ci si annoia. Non è tutto uguale. Quando il tour finisce, vorresti incatenarti da qualche parte per non ripartire più. Ma ci sono solo le dune e a tratti le rocce, quindi non puoi incatenarti e ti tocca andare via.
3 – No, nel deserto non c’è campo. Per sei giorni non si usa il telefono, non prende internet e nel mondo potrebbe succedere qualsiasi cosa, e tu non lo sapresti. E no, nel deserto non si fa la doccia, mai, perché l’acqua non si spreca. La toilet è dietro le dune e i capelli restano sporchi, ma tanto li avvolgi nella tagelmust, o chèche, il turbante tuareg, e passa la paura.
Spicciate le premesse, faccio un respiro profondo ed entro nel vivo. Siamo io, l’ing, la nostra amica Natalia, la nostra guida locale (Salam), due autisti e un cuoco. Siamo solo noi e il deserto. In sei giorni incontriamo a mala pena altri esseri umani: quando capita, io, l’Ing e Nat distogliamo lo sguardo e grugniamo, perché non vogliamo rovinare l’atmosfera con inutili chiacchiere. Maciniamo chilometri in 4×4. Camminiamo sulle dune, sprofondando nella sabbia che ha la consistenza della farina 00. Vediamo rocce piene di incisioni rupestri: giraffe, elefanti, buoi, tutti animali che erano qui migliaia di anni fa, quando qui c’erano l’acqua e l’erba e la vita. Oggi non resta niente di tutto questo. In compenso ci sono i cammelli, di cui seguiamo le impronte a forma di culo; e gli sciacalli furtivi, gli uccelli mula mula che ti avvisano se in giro c’è un serpente, e piante strane che sembrano mini angurie e poi, una volta secche, diventano ottime maracas.
C’è dio nel deserto, è ovunque anche se non ci credi. Dio, Allah, Madre Natura. Chiamatela come vi pare, quella roba lì che si percepisce in ogni dove, quando l’occhio di perde in una distesa di sabbia rossa come il fuoco e non ne vede la fine. Innegabilmente c’è qualcosa di immenso e infinito e più grande di noi in questo luogo dove il silenzio è come non l’hai mai ascoltato prima, dove gli unici rumori sono quelli dei granelli delle dune e del vento che li spettina.
Il deserto ti spoglia di qualsiasi cosa, ma la nudità che regala è di quelle che non mettono vergogna. Tempo qualche ora, la vita di tutti i giorni scivola via, non esiste più. O meglio esiste, ma appare futile, accessoria, infarcita di orpelli di cui fare a meno. Tempo qualche ora, la tua vita sono le dune, il tè al ginger, il pane che il nostro cuoco cuoce sotto la sabbia e poi sbriciola in una minestra buonissima e densa, che ci sazia di calorie e gioia.
Salam ci insegna qualche parola in tamacheq, la lingua dei touareg. Impariamo a dire “ciao”: taglaset quando ci si rivolge a una persona sola, taglasam se ce n’è di più. Impariamo a dire nigla, “andiamo”, ogni volta che siamo pronti a ripartire dopo uno stop. Ma quello che ripetiamo più spesso è tenamert tigit, “grazie molte”. Tenamert tigit per tutto, per ogni minuto di questi sei giorni in un’altra dimensione.
Info pratiche Per visitare l’Algeria serve il visto: attrezzatevi per tempo, perché va chiesto in Italia e corredato di documenti assortiti (estratto conto, prova che avete un lavoro, lettera d’invito). Maggiori info qui: http://www.consulatgeneralalgeriemilan.it/VISA.htm. In alcune zone, i turisti girano con la scorta armata: è prassi, non vi inquietate, né preoccupatevi del costo perché non sarà a carico vostro. Però sappiatelo: se la cosa vi disturba, scegliete zone dove non è obbligatoria (tipo il Tadrart dove siamo stati noi). Per esplorare il deserto serve una guida locale. Noi ci siamo affidati a Mouflon Tourisme e ci siamo trovati benissimo. Prezzo onesto e servizio impeccabile. Se volete un interlocutore che parli italiano, chiedete di Mohamed Mouissi. |