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Algeria/2 – Ghardaia e la pentapoli
Federica CapozziJanuary 20, 2023
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Africa, Destinazioni

Algeria/2 – Ghardaia e la pentapoli

L’Algeria è gigantesca: quasi 2 milioni e 400 mila chilometri quadri, di cui circa 1.600 di costa. È lo Stato più esteso di tutta l’Africa, e pensare di visitarlo tutto in un solo viaggio, a meno che il viaggio non duri diversi mesi, è chiaramente ridicolo. Così noi ci troviamo a scegliere che altro vedere, oltre ad Algeri e il deserto, nei 12 miseri giorni che abbiamo a disposizione. È un compito arduo e ingrato, perché il nord del Paese pullula di siti archeologici di epoca romana e ignorarli ci sembra un delitto. Ma una decisione va presa e noi la prendiamo: optiamo per la pentapoli della valle dello M’zab, ovvero le cinque città fortificate – Ghardaia, Beni Isguen, Melika, El-Ateuf e Bou Noura – costruite dai nomadi berberi a partire dall’XI secolo, quando decisero di diventare stanziali. Trattasi di città molto particolari: non tanto per la loro architettura, che pure è caratteristica – case color terra costruite in collina, che salgono lungo i pendii riempiendo tutto lo spazio utile dai bastioni fino alla moschea – quando per la cultura e le usanze mozabite, che fidatevi, sono più uniche che rare. I mozabiti sono islamici ibaditi (quindi non sunniti né sciiti, e qui mi fermo con i distinguo perché sono molto ignorante in materia): tengono molto alle loro tradizioni, e con molto intendo MOLTO, non amano mischiarsi alle altre etnie e mica per niente hanno scelto di vivere in mezzo al deserto, in una valle grande come un pugno circondata da centinaia e centinaia di chilometri di nulla. Ai turisti concedono di dare un’occhiata, ma a debita distanza: lo straniero che arriva a Ghardaia non si muove mai in autonomia, ma viene accompagnato da una guida del posto e scortato ovunque da un’auto della polizia. Quest’ultima cosa è un po’ inquietante, ti fa sentire un importante dignitario in visita o un cretino in pericolo di vita. In realtà non sei né l’uno né l’altro. Più che IN pericolo, sei IL pericolo: sei il granello di sabbia che, a contatto con l’ostrica, potrebbe innescare il cambiamento. E se anche il cambiamento si rivelasse una perla, beh, loro non lo vogliono: quello che vogliono è preservare usi e costumi, vivere nelle loro case color terra, vestire le donne di un velo bianco che lascia scoperto un occhio soltanto, e le fa sembrare tanti fantasmi che infestano la città.

Non fraintendete. Le persone che abbiamo incontrato sono state squisite, gentili, accoglienti. Ci hanno riempito di sorrisi, ci hanno raccontato la loro vita e la loro cultura, fatto scoprire l’artigianato e i sapori locali, offerto tazze di tè dolcissimo e quintali di noccioline. Ci hanno accompagnato nelle vie tortuose, spiegato come riconoscere i muri antichi da quelli nuovi, riso alle nostre domande forse ingenue (tipo: “Anche le donne partecipano al mercato all’asta di Beni Isguen?”). Ma il dubbio che mi resta, piuttosto fondato, è che abbiano omesso quello che andava omesso, che ci abbiano narrato il tutto come una favoletta della buonanotte. La conclusione – mia, personalissima, e non per forza condivisibile – è che per apprezzare Ghardaia sia necessario sospendere ogni giudizio, deporre le armi del pensiero occidentale. Noi ci abbiamo provato. Se ci siamo riusciti, beh, magari ve lo dico un’altra volta.

La piazza con portici di Ghardaia, ingresso dell’antico suk.
Il minareto della moschea di Ghardaia, con la tipica forma piramidale che caratterizza questi edifici nella valle del M’Zab.
Il minareto della moschea di Ghardaia spunta tra le case della città vecchia.
Noi con la nostra guida a Ghardaia.
Ghardaia, città vecchia.
Le città della valle del M’Zab sono tutte un saliscendi. Ma i pendii sono dolci, a prova di anziano. E di motociclista che deve parcheggiare.
Scorcio degli interni della moschea di Ghardaia.
Abiti in vendita nel suk di Ghardaia.
Ora di punta al suk di Ghardaia.
La nostra amica Natalia con l’haik, il velo integrale tipico delle donne mozabite.
La caratteristica dell’haik mozabita è che lascia scoperto un occhio soltanto. NB: le donne mozabite non si fanno fotografare. Questa è Natalia, l’amica che ha viaggiato con noi.
La palmeraie di Beni Isguen.
Delle cinque città fortificate, Beni Isguen è l’unica che ha conservato intatta tutta la sua cinta muraria.
Beni Isguen dall’alto. Attorno, il nulla della valle del M’Zab.
Uomini in piazza a Beni Isguen per il mercato all’asta che si svolge ogni giorno tranne il venerdì. In sintesi è il mercato delle pulci cittadino. Fa molto colore.
L’ingresso di Tafilalet, la prima città ecologica del deserto algerino, sorta alla periferia di Beni Isguen.
Una delle vie ordinatissime di Tafilalet, il quartiere ecologico di Beni Isguen.
Colori e architettura tipici della pentapoli a El Atteuf.
Il minareto di El Atteuf.
El Atteuf, tra i vicoli della città vecchia.
El Atteuf.
La moschea di Sidi Brahim a El Atteuf. Pare che Le Corbusier, che visitò la valle del M’Zab nel 1931, vi si sia ispirato per costruire la cappella di Notre Dame de Haut a Ronchamp.
Canti e balli tipici nella cittadina di Seb Seb, durante una manifestazione per la visita della ministra della cultura.
Un touareg e il suo cammello.
La camionetta della polizia che ci ha scortato per tre giorni durante il nostro soggiorno a Ghardaia e dintorni.

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