L’Algeria è gigantesca: quasi 2 milioni e 400 mila chilometri quadri, di cui circa 1.600 di costa. È lo Stato più esteso di tutta l’Africa, e pensare di visitarlo tutto in un solo viaggio, a meno che il viaggio non duri diversi mesi, è chiaramente ridicolo. Così noi ci troviamo a scegliere che altro vedere, oltre ad Algeri e il deserto, nei 12 miseri giorni che abbiamo a disposizione. È un compito arduo e ingrato, perché il nord del Paese pullula di siti archeologici di epoca romana e ignorarli ci sembra un delitto. Ma una decisione va presa e noi la prendiamo: optiamo per la pentapoli della valle dello M’zab, ovvero le cinque città fortificate – Ghardaia, Beni Isguen, Melika, El-Ateuf e Bou Noura – costruite dai nomadi berberi a partire dall’XI secolo, quando decisero di diventare stanziali. Trattasi di città molto particolari: non tanto per la loro architettura, che pure è caratteristica – case color terra costruite in collina, che salgono lungo i pendii riempiendo tutto lo spazio utile dai bastioni fino alla moschea – quando per la cultura e le usanze mozabite, che fidatevi, sono più uniche che rare. I mozabiti sono islamici ibaditi (quindi non sunniti né sciiti, e qui mi fermo con i distinguo perché sono molto ignorante in materia): tengono molto alle loro tradizioni, e con molto intendo MOLTO, non amano mischiarsi alle altre etnie e mica per niente hanno scelto di vivere in mezzo al deserto, in una valle grande come un pugno circondata da centinaia e centinaia di chilometri di nulla. Ai turisti concedono di dare un’occhiata, ma a debita distanza: lo straniero che arriva a Ghardaia non si muove mai in autonomia, ma viene accompagnato da una guida del posto e scortato ovunque da un’auto della polizia. Quest’ultima cosa è un po’ inquietante, ti fa sentire un importante dignitario in visita o un cretino in pericolo di vita. In realtà non sei né l’uno né l’altro. Più che IN pericolo, sei IL pericolo: sei il granello di sabbia che, a contatto con l’ostrica, potrebbe innescare il cambiamento. E se anche il cambiamento si rivelasse una perla, beh, loro non lo vogliono: quello che vogliono è preservare usi e costumi, vivere nelle loro case color terra, vestire le donne di un velo bianco che lascia scoperto un occhio soltanto, e le fa sembrare tanti fantasmi che infestano la città.
Non fraintendete. Le persone che abbiamo incontrato sono state squisite, gentili, accoglienti. Ci hanno riempito di sorrisi, ci hanno raccontato la loro vita e la loro cultura, fatto scoprire l’artigianato e i sapori locali, offerto tazze di tè dolcissimo e quintali di noccioline. Ci hanno accompagnato nelle vie tortuose, spiegato come riconoscere i muri antichi da quelli nuovi, riso alle nostre domande forse ingenue (tipo: “Anche le donne partecipano al mercato all’asta di Beni Isguen?”). Ma il dubbio che mi resta, piuttosto fondato, è che abbiano omesso quello che andava omesso, che ci abbiano narrato il tutto come una favoletta della buonanotte. La conclusione – mia, personalissima, e non per forza condivisibile – è che per apprezzare Ghardaia sia necessario sospendere ogni giudizio, deporre le armi del pensiero occidentale. Noi ci abbiamo provato. Se ci siamo riusciti, beh, magari ve lo dico un’altra volta.