L’ultima tappa del nostro viaggio algerino è la capitale, Algeri. Ci restiamo poco: un giorno e mezzo soltanto, con una notte che pensavamo di movida e invece no, alle sei ci beviamo due birre a testa, rigorosamente a stomaco vuoto, per interrompere l’astinenza di undici giorni, giocandoci così ogni energia nei fumi dell’alcol (ben ci sta, gozzi che non siamo altro).
Dopo sei giorni nel deserto a sentire solo il rumore del vento e altri tre a Ghardaia, dove la donna più audace mostra due occhi invece che uno solo, Algeri ci sembra Las Vegas, un lupanare o Sesto San Giovanni. È affollata, caotica, piena di traffico, con un’aria irrespirabile e un panorama non sempre gradevole. Saliamo alla basilica di Nostra Signora d’Africa, la chiesa cattolica che sorge su un promontorio di un centinaio di metri a nord del centro, e quando arriviamo in cima sputiamo i polmoni, non per la fatica – il pendio è lieve – ma per lo schifo che abbiamo respirato. Passeggiamo e schiviamo i rifiuti. Entriamo nel palazzo dove alloggiamo e l’androne, senza elettricità, fa subito film dell’orrore. Nel buio, ci aspettiamo l’attacco di un piccione zombie, ma per fortuna ne usciamo incolumi.
Eppure Algeri val bene una visita. Due ore a spasso per la Casbah, la cittadella fortificata che dal 1992 è patrimonio Unesco, raccontano una storia antica, sono un viaggio nel tempo e nello spazio. Non dico che sia del tutto piacevole. La Casbah è decadente, sporca, in rovina. I palazzi sono sventrati, crollati, di molti resta solo qualche muro vuoto di finestre, e attraverso i buchi si vede il mare. A terra ci sono plastica, cartacce, bucce e cacche, il silenzio dei vicoli mette tensione, le risate risuonano tetre anche in pieno giorno, non conoscere l’arabo ci spazientisce. Quando un ragazzino ci viene incontro con una vanga in mano, ci chiediamo subito se la userà per finirci o seppellirci. Ma anche la decadenza ha il suo fascino – è lo stesso di Napoli, di Palermo e di Lisbona, dei palazzi antichi incrostati di smog, delle residenze d’epoca infestate d’edera ed erbacce, delle rovine scozzesi abbandonate al vento e alla malinconia. È il fascino del tempo che passa e lascia il segno, della storia dolorosa di un Paese che fino all’altro ieri era in guerra e in tumulto, delle ferite e delle cicatrici che non si possono, non si vogliono cancellare. Algeri va avanti, è moderna, c’è una metropolitana più bella ed efficiente di tante altre in Europa, l’aeroporto è nuovo di pacca e tutto lucido, sembra quasi che lo usino poco per non sgualcirlo. Ma il cuore della città è nero e in pezzi. Maltrattato, e fragile, e prezioso. Forse anche Algeri è un luogo dove vale la pena tornare.