Dieci giorni in Egitto, e di Egitti ne vediamo tre. Non male come inizio, considerando che la grafomane è la prima volta che ci mette piede, mentre l’ing c’è stato in passato, ma solo di sfuggita.
Cominciamo dall’Egitto finto, quello dei resort sul Mar Rosso. Per cinque giorni siamo nella bolla dorata di un all inclusive di Marsa Alam, dove basta alzare un braccio per avere una birra. È l’anti-viaggio per definizione, il non-luogo di tutti i non-luoghi: non ci sono barriere linguistiche, non c’è cambio di valuta, non c’è azzardo culinario. Gli egiziani lavorano e sorridono, sorridono e lavorano. Tu non muovi un dito, l’unica decisione che ti spetta è quella sul self-service dove mangiare. Pure i pesci sono compiacenti: ce ne sono così tanti sotto il pontile che non devi neanche fare lo sforzo di andarteli a cercare, basta scendere in acqua per essere circondati dai loro mille colori. Bello, bellissimo. Ma per cinque giorni, non di più. Al sesto ti ricoverano per sospetta morte cerebrale.
L’Egitto numero due è quello antico, dei faraoni, dei loro dei e delle tombe. È l’Egitto di Assuan, di Luxor e di Abu Simbel, un inno all’ingegno umano, alla tenacia di costruire, di sfidare il transitorietà e la morte a colpi di templi e statue e colonne, tutti così alti e maestosi che per guardarli devi rovesciare il capo all’indietro e l’aria ti si strozza in gola lasciandoti letteralmente senza fiato. L’Egitto antico è quello del Nilo, che quando te lo trovi davanti per la prima volta è un’emozione perché è da quando ti ricordi che lo leggi nei libri di scuola e nei romanzi, che lo vedi nei film e nei documentari. È un Egitto che vale il viaggio, è bellissimo e ricco e sorprendente. Ma non ha niente a che vedere con l’Egitto di oggi.
L’Egitto di oggi è il numero tre ed è quello vero, al netto dei resort per turisti pigri e dei siti archeologici per wannabe Indiana Jones. È l’Egitto che vediamo dal finestrino dell’auto di Ahmed, l’autista che da Marsa Alam ci accompagna per quattro giorni tra Assun, Abu Simbel e Luxor. Il viaggio è lungo ed estenuante: il primo giorno dura dieci ore perché la strada breve – che di ore ne avrebbe prese “solo” sei – è chiusa ai turisti per una qualche emergenza che Ahmed, con il suo inglese sgarruppato, non riesce a dettagliarci. I giorni seguenti continuiamo a botte di tre-sei ore di viaggio. Alla fine ne contiamo circa 28 in tutto. Un tempo infinito se non fosse per la compagnia di libri e podcast, e per lo spettacolo umano che sfila davanti ai nostri occhi, sulle strade polverose che attraversano il deserto, si avvicinano al Nilo, lo costeggiano e lo corteggiano. Là fuori ci sono villaggi sgangherati e costruzioni precarie, edifici tirati su per metà, uomini affaccendati, donne velate, bambini che giocano e corrono e urlano. Né urlano solo i bambini. Urlano i mercatari e gli ambulanti, i venditori di frutta e spremute di canna da zucchero, i guidatori e i loro clacson. Il casino è immenso e non solo acustico, resta casino anche se ti tappi le orecchie e guardi fuori come dentro un acquario. Auto, carretti, moto, motorini e motorette, pick-up che rigurgitano merci e persone, tuc-tuc a motore, trattori, mezzi dell’esercito e della polizia. Tutto si muove, niente resta fermo per più di un secondo. Là fuori, tutti hanno qualcosa da fare, non fosse che andare dal punto A al punto B. Chi si ferma è perduto. Nelle cittadine che attraversiamo a fatica, facendo la gincana tra mille altri veicoli e ancor più persone, l’attività si fa ancora più frenetica al calare del sole, si sfornano pani, si tagliano carni, si accendono narghilé. Il fumo della shisha si alza e si mischia a quello delle griglie e alla polvere della strada. La vista si appanna. La pace del resort all inclusive è un vago ricordo. Non ne sentiamo la mancanza.
L’Egitto vero è quella cosa che abbiamo solo sfiorato. Non siamo così presuntuosi da credere di averlo visto davvero. Ben altri mezzi ci vorrebbero, altro che l’auto comoda di un autista tutto per noi. Ben altri tempi che quattro giorni on the road a rimbalzare tra una bellezza antica e l’altra. L’Egitto vero è complicato, questo lo possiamo intuire. Complicato e poco confortevole, come quell’albergo dove ci fermiamo a un certo punto per fare pipì lungo la strada. Ahmed mi accompagna dentro, parla con il proprietario che è forse un suo amico, mi fa strada al piano di sopra dove qualcuno mi apre la porta di una camera dai letti disfatti. C’è polvere ovunque e odore di chiuso, il bagno è hardcore come quelli delle discoteche alle 3 del mattino. Rido da sola, penso che se dovessi dormire qui anche solo una notte, lo farei vestita e avvolta nel domopak. Ah come sono borghese. Torno in auto, ripartiamo. A questo giro, l’Egitto vero lo vediamo così, come in Tv. La prossima volta ne riparliamo.