Cosa spinge una persona sana di mente a prenotare un volo per la Lituania in pieno inverno, quando le temperature scendono di molto sotto lo zero e visitare una città è disagevole, sfidante, una specie di punizione corporale che manco la crioterapia alla quale si sottopone Cristiano Ronaldo per contrastare l’invecchiamento? La risposta a questa domanda è: NON LO SO, perché evidentemente noi non siamo persone sane di mente.
Eccoci dunque a Vilnius, grafomane, ingegnere, Montone e tre amici temerari che si sono uniti a noi. Un bel gruppo di deficienti che invece che andare alle Canarie hanno pensato bene di congelarsi in uno dei centri storici barocchi più grandi e meglio conservati d’Europa, patrimonio Unesco di viette acciottolate, chiese e altre pittoresche graziosità. Loro – l’ing e gli amici – si dimostrano coriacei: trillano felici alla vista della neve, non imprecano quando raggiungiamo i -15, sorridono (ma forse è una paresi). Io, che sono oltremodo freddolosa e odio l’inverno più delle tasse, deambulo infagottata in tutti gli indumenti che ho a disposizione – leggins e maglia termica, jeans, due maglioni e una t-shirt, piumino, sciarpa, due paia di calze e due di guanti, cappello e scarponcini da trekking – borbotto e non muovo più mani e piedi. Sono certa che morirò a breve. Diventerò una statua di ghiaccio tipo Frozen, ma avrò meno successo planetario perché non sono una principessa Disney con gli occhi azzurri e il naso all’insù.
Freddo a parte, Vilnius vale la visita. Io, grafomane dal passato wannabe intellettuale, ci volevo andare da secoli, da quando frequentavo l’università e mi ero impallinata con Eimuntas Nekrosius, un mega regista lituano che aveva portato al Piccolo di Milano le sue pièce teatrali: ai tempi mi ero vista Amletas, Macbethas e altri Shakespeare assortiti, il tutto rigorosamente in lituano con sovratitoli. Quattro ore e mezza a botta, scenografie superminimal, dialoghi pressoché inesistenti, teatro kabuki: spostati. Per farla breve, Vilnius nella mia testa era un crogiolo di cultura underground, una perla scintillante incastonata nell’ex blocco sovietico. E un po’ è così, in effetti. Vilnius è davvero una perla, ma a farla scintillare è il ghiaccio che la ricopre.
Sproloqui a parte, la adoriamo. E non tanto per la città vecchia, che pure è molto carina ma non giustifica l’ibernazione. Apprezziamo di Vilnius quello che ci coglie di sorpresa. La repubblica di Užupis, per esempio: un quartiere, un tempo poverissimo e oggi hipsterissimo, che nel 1997 si è autoproclamato indipendente e ha promulgato la sua costituzione: una quarantina di articoli meravigliosi, che sanciscono diritti come quello di essere un cane o di ambire all’eternità. Gli ultimi tre sono quelli che preferisco: “Non vincere, non contrattaccare, non arrenderti”.
E poi c’è tutto il côté sovietico, che approfondiamo durante un free walking tour alternativo (se vi capita, cercate “undiscovered” o “alternative” Vilnius: ci sono diverse compagnie di free walking tour che lo fanno). La guida è giovane, è nata dopo l’indipendenza dall’Urss del 1990, ma si è fatta raccontare cose da nonni e genitori, e ci offre aneddoti mentre ci porta nei quartieri che un tempo erano il cuore, architettonicamente brutto e bolscevico, della città. Così apprendiamo dell’hotel dove andavano gli stranieri, dove un intero piano era occupato dalle spie del regime, dell’impossibilità di procurarsi mattoni per costruire e delle banane, che erano un bene così esotico che quando hanno iniziato a venderle la gente faceva la coda per ore fuori dai mercati, e poi magari arrivava il loro turno ed erano finite, e allora giù lacrime.
Dove sorgevano i palazzoni sovietici, oggi svettano i grattacieli vetrati del nuovo distretto finanziario, un paletto di capitalismo piantato dritto dritto nell’ex cuore comunista della città. Lì accanto, poi, c’è Snipiskes, che di Vilnius è la parte più curiosa: un quartiere di case in legno, basse e fatiscenti, e vie non asfaltate, dove il tempo si è inceppato e la gente vive ancora come nei secoli scorsi, senza riscaldamento e con il gabinetto in cortile. È strano, straniante: davvero sembra di aver attraversato uno specchio ed essere planati in un’altra dimensione. La maggior parte delle case cadono a pezzi, altre sono state sistemate per metà, perché dentro ci vivono più famiglie ma non tutte hanno voluto intraprendere una ristrutturazione. Intanto nevica in orizzontale, i fiocchi mi entrano negli occhi e nelle scarpe. Amo e odio questo posto come pochi altri al mondo.
Se il tempo non facesse schifo e le strade non fossero ghiacciate, probabilmente in cinque giorni batteremmo a tappeto la Lituania intera, su fino a Klaipeda e alla penisola curlandese. Ma il tempo fa appunto schifo, dunque ci limitiamo a Trakai, con il suo castello su lago ghiacciato, e Kaunas, la seconda città del paese, dove ci dividiamo tra musei e ristoranti – la cucina lituana è sostanziosa e pensante, la specialità sono i cepelinai, o zeppelin, a base di patate, carne e formaggio, che dei dirigibili tedeschi non hanno solo il nome, ma anche la forma, il peso e direi la digeribilità – poi finire con una degustazione di vodka alle 11 del mattino. Ne usciamo provati, ma vincitori. Forse torneremo, perché no. Ma magari a giugno, eh.