Dopo i fasti di Paro e prima del trekking a 4800 metri che chiuderà il viaggio, passiamo due giorni e mezzo tra Thimphu e Punakha, la capitale di oggi e quella che lo è stata per secoli fino al 1962. A collegarle è una tortuosa e piuttosto scenografica strada di montagna, che culmina a 3140 metri con il passo Dochu La, dove la regina madre ha fatto erigere 108 chorten in memoria dei soldati caduti durante la guerra lampo del 2003 contro i separatisti indiani dell’Assam. Da lassù si dovrebbe vedere l’Himalaya con i suoi picchi più alti, ma le nuvole basse coprono tutto e oltre la cortina, per quanto ne sappiamo, potrebbe esserci il grande raccordo anulare che poco cambierebbe.
In compenso, le città ci riempiono di soddisfazioni. Thimphu è piuttosto moderna e nel complesso poco pittoresca, ma ci sta subito simpatica, dominata com’è dal suo Buddha dorato di 51 metri, seduto a gambe incrociate su una collina dalla quale domina tutta la valle. Tanto è imponente Buddha, e un poco trash nella maniera devota che conoscono i buddhisti, tanto sono discrete e pazienti le donne che lavorano al telaio nel primo centro di tessitura artigianale che visitiamo. Loro, e poi gli studenti del National Institute for Zorig Chusum, la scuola dove i giovani imparano le arti nazionali: pittura, scultura, intaglio del legno, tessitura, ricamo e così via fino a tredici discipline diverse, tutte insegnate in un instituto statale dove chi ha talento vince, forse, la lotteria di una vita lontano dai campi. A Thimphu c’è anche una manifattura di carta di dafne artigianale, l’unica di tutti il Bhutan, dalla quale esce la carta per i documenti ufficiali e più importanti: è grande poco più di un garage e affollata di gente operosa che pesta, immerge, stende, taglia. Mani precise, mani bagnate, ogni tanto le mani di un bambino che la mamma non sapeva dove lasciare e si è portata al lavoro. Poi ci sono le mani degli arcieri, quelli che si allenano al campo cittadino tendendo gli archi all’inverosimile, sperando di colpire un bersaglio impossibile a 145 metri di distanza, roba che noi manco lo vediamo, figurarsi fare centro. Infine ci sono le mani danzanti del vigile della rotatoria di Norzin Lam, dove una volta hanno messo un semaforo ma i cittadini l’hanno fatto togliere, ché è molto più divertente avere un tizio in mezzo alla strada che dirige un’orchestra di auto come se facesse i balli di gruppo.
Prima di arrivare a Punakha, facciamo un rapido giro nella sua valle. Campi coltivati, bandierine benauguranti che si agitano al vento, case rurali con grandi falli disegnati sulle pareti, ché in Bhutan i falli portano bene e ce ne sono ovunque, bidimensionali sui muri, di legno appesi ai tetti, di ogni foggia e dimensione nei negozi di souvenir, per i turisti che li comprano sghignazzando e si figurano la faccia di chi li riceverà in dono. Camminiamo, saliamo, scendiamo, visitiamo un tempio qua, un altro là, fino a Punakha, che splende con il suo dzong tra due fiumi. È il più bello e sontuoso del Paese, dicono, quello dove ancora si svolgono le cerimonie più solenni e tutti i re sono stati incoronati. Entriamo e i monaci sono riuniti a recitare i mantra, sono tanti, vestiti di rosso sangue, le pareti risuonano della loro cantilena. Continueranno per ore, fino a sera, li sentiremo ancora nelle orecchie mentre in auto saliremo una strada tortuosa che si inerpica tra le risaie per arrivare all’homestay dove dormiremo stanotte. È una fattoria letteralmente in mezzo al nulla, circondata da campi che si stanno risvegliando dopo un inverno più lungo del solito. La casa è grande, accogliente, il giardino profumato, la padrona gentile. Non parla inglese ma la lingua universale dei sorrisi e del cibo, che ci offre come abbondante benvenuto: tè al burro, di un curioso colore rosa, e tè con il latte, fogli di riso croccanti, una strana torta di riso cotto e pestato, altro burro e semi di papavero, buonissima, una specialità che si prepara solo nelle occasioni importanti. A cena non c’è scampo, siamo gli ospiti d’onore e guai a non assaggiare tutto, le verdure al formaggio, i broccoli saporitissimi, il maiale fritto, le felci arrotolate che ho visto solo qui in Bhutan e sembrano i bastoni di uno stregone. La cucina bhutanese è povera e piccante, il peperoncino sta dappertutto, eppure riusciamo a sopravvivere, anche l’Ing che il peperoncino lo aborre. Assaggiamo tutto per cortesia e continuiamo per gusto, la signora è un’ottima cuoca, pure a colazione ci prepaperà un banchetto con gli ingredienti freschi del suo orto. Per noi è un assaggio del Bhutan rurale, un assaggio in senso stretto e in senso lato, come sempre ci chiediamo come sia vivere lì alla fine del mondo, dove il mondo non arriva, dove potrebbe succedere qualsiasi cosa, una rivoluzione o la guerra atomica, e forse non cambierebbe niente, le verdure continuerebbero a crescere, i frutti a maturare, la vita a scorrere.