Visto che la maggior parte del territorio bhutanese è montuoso, vuoi non spararti uno di quei trekking di più giorni che ti fanno pentire di essere nato? Io e l’Ing ce lo scegliamo con cura, o meglio, lui studia le alternative, io dico sì a tutto senza rendermi contro che arriveremo più in alto del Monte Bianco. Ingenua come Heidi, temo per il mio ginocchio che non ama le discese e mi figuro che sarà l’unico a darmi dei problemi.
Sciocca! Il giorno uno, quando lasciamo Paro con la nostra guida, Kille, e raggiungiamo in auto il punto di partenza del trekking noto come “Jomolhari 2”, ho un raffreddore talmente forte che non riesco a respirare. A Sharna Zampa ci aspettano cuoco e aiuto cuoco, sei cavalli, carichi di provviste e attrezzatura da campeggio, e l’uomo dei cavalli che si prenderà cura di loro. Iniziamo a salire lungo il fiume Paro, il sentiero non è ripido ma è una pietraia che fa su e giù in continuazione. Dopo il primo chilometro ho già finito un pacchetto di fazzoletti e voglio morire. Me ne aspettano altri 15, di chilometri: ora del pomeriggio, quando arriviamo ai 3594 metri del campo per la prima notte, sembro cosciente ma non lo sono, cammino per inerzia, spinta da una forza sovrannaturale che mi impedisce, non so come, di accasciarmi a terra come un sacco. L’Ing mi parla e a rispondere è la me stessa di un universo parallelo, che possiede momentaneamente il mio corpo marcio di febbre. Mi sento come quando andavo a ballare alla Casa 139 e il mio spirito ebbro si librava nell’aria al ritmo di musica, ma mi diverto di meno. La mia vocina interiore ripete, alternativamente: “Hai sopportato di peggio” e “Morirai, maledetta oca”.
Il secondo giorno va meglio, ma solo perché la strada è più corta e più piatta. Arriviamo a 4100 metri, al campo base del Jomolhari, cioè il secondo picco più alto del Bhutan: 7314 metri di montagna innevata che domina il paesaggio e sulla cui cima è proibito salire (come se fosse un’opzione, ah ah!). Sto ancora uno schifo ma ci sono i prati verdi, gli yak al pascolo, un fiumiciattolo dove i cavalli sbevazzano soddisfatti. Il Jomolhari è imponente ma nascosto dalle nuvole. Nei due giorni che passiamo ai suoi piedi, ne impariamo il carattere, ne capiamo i ritmi e i capricci di dama che si sveglia sfacciata la mattina, mostrandosi nuda ai primi raggi del sole, per poi velarsi dopo pranzo, e chiudersi a riccio dentro un cappotto di nebbia. Svegliarsi alle 5 è il prezzo da pagare per vederla infuocata in tutto il suo splendore.
Il passo che dovremmo attraversare il terzo giorno è invalicabile, coperto di neve ad altezza vita. Non ci proviamo neanche, nei giorni scorsi abbiamo incontrato decine di escursonisti che tornavano indietro come da una festa brutta. Il buon Kille ci propone un’alternativa e ci spedisce a quota 4877 metri a un altro passo, il Neyleyla, dove arriviamo arrancando e sputando i polmoni, agili per l’altitudine come se avessimo i piedi intrappolati in ceppi da carcerato. Il paesaggio però è spettacolare, i pendii spruzzati di neve. Incontriamo marmotte, mandrie di yak, una famiglia in viaggio da cinque giorni che pasteggia sull’erba, ufficiali dell’esercito bhutanese, un giovane solitario che sale con passo regolare, curvo sotto il peso della lavatrice che trasporta a schiena. Ci rendiamo contro che, forse per la prima volta, battiamo sentieri che non sono ad uso esclusivo degli escursionisti, anzi. Queste sono le strade dei bhutanesi, che altre strade per raggiungere i villaggi più remoti non ne hanno.
Il giorno quattro prendiamo un’altra strada ancora, raggiungiamo due laghi a 4430 metri, piantiamo le nostre bandierine portafortuna come se avessimo messo piede sulla Luna, poi facciamo dietro front e cominciamo una lenta discesa verso il campo numero uno, quello del primo giorno. L’ultimo tratto di 16 chilometri lo copriamo il giorno dopo, io, che non sto più male, registro finalmente i boschi che in preda al delirio avevo a mala pena visto. Ad aspettarci a Sharna c’è un comitato di benvenuto, il team dell’agenzia al completo, che ci accoglie con torte, bibite e birre calde. È il nostro commiato dal Bhutan. Una doccia, una cena, una notte in un letto vero e domani si torna a casa. Solo il pensiero di una pizza ci consola in parte per la fine del viaggio, e la consapevolezza che tanto tra un po’ si riparte (vero, Ing?).