Ventiquattro ore di stop all’andata, ventiquattro al ritorno. Il viaggio in Bhutan ci regala due scali lunghi a Delhi e la possibilità di mettere il naso in India, dove non siamo mai stati ma dove prima o poi prenderemo il tempo, e il coraggio, di andare. Ma non basterebbe una vita per girarla tutta, l’India, figurarsi per capirla. Dunque prendete questo post come quello che è: un’umile polaroid senza pretese, mossa come le peggiori foto fatte in corsa.
Al primo scalo tentiamo la fortuna. Agra dista tre ore e mezzo da Delhi, traffico permettendo: alle 10 del mattino prendiamo un taxi e nelle prime ore del pomeriggio, svarionati dal volo notturno e dal fuso, arriviamo al Taj Mahal. Bianco, simmetrico, perfetto, il mausoleo che l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire per la moglie Mumtaz Mahal nel 1632, è proprio quello delle cartoline, delle fotografie di viaggio, dei documentari sulle meraviglie del mondo moderno. Fa caldo. I turisti sciamano, ma la guida che ci accompagna ci assicura che questo è niente, gli stranieri non sono ancora tornati a pieno regime dopo il covid. Per filo e per segno ci racconta la storia d’amore del re e della sua signora, insiste per scattarci delle foto ricordo dove veniamo malissimo, mi mostra la panchina famosa dove si sedette Lady Diana tutta sola, a sbattere in faccia la sua tristezza al mondo, e mi chiede se ne voglio una anche io, di foto tutta sola e triste. Declino. No grazie, come se avessi accettato. Non vorrei esagerare con le emozioni per quest’oggi.
Al secondo scalo siamo sulla via del ritorno, ci aggrappiamo agli ultimi scampoli di vacanza prima di tornare al mondo reale. Siamo fortunati perché a Delhi abita Eveline, amica della nostra amica Gloria che ci ha messo in contatto, così invece che vagare da soli come due cretini vaghiamo con lei nei 40 gradi del pomeriggio. Eveline vive a Delhi da un anno, la conosce bene e sa dove portarci. In poche ore passiamo dal tempo Sikh Gurudwara, così affollato che ipotizziamo possa contenere l’intera popolazione del Bhutan, al delirio del mercato nella zona dei backpackers, dove fare shopping è così economico, e polveroso, che non possiamo né vogliamo esimerci. Eccola, l’India come ce l’aspettavamo: tuk tuk, motorini, carretti, se ti distrai un attimo sei sotto le ruote di un veicolo, il traffico è folle e disordinato, il rumore continuo e assordante, a tratti pensi che qualcuno sia svenuto sul clacson perché altrimenti non c’è motivo di suonarlo così a lungo, e invece no, stanno tutti benissimo, sicuramente meglio di te che sei vergine di questo caos e non sai come ne uscirai.
Eppure bastano pochi spicci e una corsa in tuk tuk per cambiare scenario. Delhi è ancora calda come l’inferno ma il rumore è più soft, le strade più ampie, ai lati crescono alberi tropicali fitti come in una foresta. Nei quartieri bene degli stranieri ci sono locali alla moda, terrazze per nulla fresce ma comunque scenografiche, murales che ravvivano i muri cadenti di edifici mai più anonimi. Eveline racconta, spiega, ci offre odori, sapori, luoghi che senza di lei ci saremmo persi. Alle 11 di sera fa ancora un caldo d’inferno, i piedi esplodono nelle scarpe chiuse, sappiamo di polvere e di viaggio che sta per finire. E finisce così quest’interludio indiano, trailer di un film che gireremo in futuro.