Seul ci piace così tanto che andarcene è un dispiacere, ma il resto della Corea del Sud ci aspetta, e allora via. Da qui in poi ogni giorno è una tappa, ogni tappa una storia a sé. Iniziamo dalla regione centro-orientale del Gyeongsangbuk-do, visitiamo Daegu, piuttosto trascurabile se non fosse per il luna park sul tetto del centro commerciale, e Gyeongju, che a ragione chiamano il museo senza muri, con i suoi tumuli ricoperti d’erba che paiono colline e invece sono tombe antiche. Ci sono talmente tanti pannelli esplicativi in città che dopo mezza giornata ne sapremmo costruire una anche noi, di queste tombe. Qui in zona visitiamo pagode, templi e villaggi freezati nel tempo passato, dormiamo a terra su scomodi tatami perché così è più tipico (e sticazzi, disse la mia schiena), ci indigniamo perché i caffè superano di gran lunga le birrerie. Lasciamo il Gyeongsang e andiamo verso sud, ci fermiamo ad Hadong, nel Jeollabuk-do, perché è una base comoda per raggiungere il monte Jirisan dove vogliamo fare trekking, e scopriamo che è la patria del tè coreano. L’ing, che per il tè ha una dipendenza che sfiora la perversione, va in estasi e compra etti di tè al grido di: Posso sempre buttare le magliette. Passiamo in Jeollanam-do, anche detta Criminalia da quando il nostro amico di Seul ci ha consigliato di non andarci perché la gente è disonesta. Noi ne prendiamo atto e ci andiamo lo stesso, ché pure qui ci sono le piantagioni di tè e figurarsi se l’ing ci rinuncia, e poi sono piantagioni di tè, mica di coca. È la scelta giusta – i coreani di Criminalia non sono più criminali di noi, nessuno ci truffa né ci deruba, c’è pure una bella foresta di bambù e a Gwangju si mangia il tteokgalbi, una specie di polpetta di carne che fanno solo in un quartiere delle città ed è un grandissimo sbattimento andarci apposta, ma alla fine siamo contenti. Dunque usciamo indenni da Criminalia e procedamo verso est. Questa volta il suggerimento dell’amico di Seul lo seguiamo e veniamo premiati con l’isola di Namhae dalla costa frastagliata, dove le strade sono tra le più scenografiche di tutto il paese, le salite ripide, i colori, appena esce il sole, accesi come si confà alle cartoline.
Ma è Busan, la tappa finale prima del traghetto che ci porterà in Giappone, che ci piace più di tutto messo insieme, quasi come Seul se non addirittura un pelo di più. Busan è la seconda città coreana, spalmata lungo chilometri e chilometri di costa. Una rottura di scatole passare da un’estremità all’altra, cambiare quartiere implica farsi anche un’ora di autobus, ma chissenefrega, Busan merita la fatica e la pazienza, perché è vivace come una metropoli e rilassata come un porto di pescatori, è modaiola sulla spiaggia di Haeundhae, unta e sfrigolante nel food market di Nampo, rumorosa tra le bancarelle che servono spiedini e fish cake, birra, shochu e makgeolli (è buonissimo il makgeolli), è scintillante di grattacieli nei quartieri dei ricchi e coloratissima a Gamcheon, il quartiere-villaggio trasformato dagli artisti locali in una permanente di street art. C’è un po’ di tutto qui, il bello e il trash, il vecchio e il nuovo, l’innovativo e il tradizionale. Come Seul, anche Busan è un libro dove si legge la Corea con tutti i suoi capitoli. L’entusiasmo e le ferite, la ricchezza e la fatica, i giovani con i cellulari e gli anziani coi carretti, ettolitri di caffè in ogni forma e tonnellate di kimchi, ché a quello i coreani non rinunceranno mai. Noi sì, siamo disposti all’abiura. Ci imbarchiamo per Fukuoka, e da qui in poi con il kimchi, vivaddio, abbiamo chiuso.