Il Kyushu è l’isola più meridionale del Giappone, quella più vicina alla Corea del Sud e, in genere, la meno battuta dai turisti che si fanno il giro classico: Tokyo, Kyoto, Nara, se c’è tempo anche Hiroshima. Noi in Kyushu non ci andiamo per fare gli alternativi (il prossimo che mi usa l’espressione “off the beaten track” lo prendo a legnate), ci andiamo perché tre settimane in Corea ci sembrano troppe e il traghetto da Busan a Fukuoka impiega solo tre ore da porto a porto. Dunque voilà, dopo due settimane di k-pop, k-food, k-cosmetics, k-kimchi, eccoci sull’altra sponda, a duecento chilometri e un universo di distanza. Basta un’ora a Fukuoka per ritrovare, in piccolo, il Giappone che abbiamo conosciuto anni fa, nel nostro primo viaggio a oriente. I locali con le tendine che sembrano usciti da un manga, gli ideogrammi incomprensibili, quella parlata strascicata che t’allunga le sillabe finali all’infinito, konichuaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa, arigatooooooo, allunga l’ultima vocale e sembrerà quasi che tu sappia la lingua, e se non sai cosa dire fingiti stupito: ohhhhhhhhh (da leggere con voce nasale).
E comunque, il Kyushu è strepitoso. Bellissimo. Una terra di montagne e boschi fitti, così fitti che a tratti ricordano le foreste tropicali; di sorgenti termali e vulcani attivi, alcuni avvicinabili anche se fumano imperterriti, altri troppo minacciosi per tentare l’azzardo. È un posto da amanti del trekking, perfetto per chi come noi si diverte a conquistare i panorami sudando e imprecando sui sentieri scoscesi. Monte Aso, Nagadake, Eboshidake, su per sentieri impervi, giù lungo pendii panoramici, all’ombra di boschi che accennano l’autunno. In cima, c’è sempre un panorama che vale la pena di essere visto, uno sbuffo di fumo che si alza nell’aria, a volte, in lontananza, persino il mare. Ci sono anche le città, grandi e piccole, Fukuoka con le sue bancarelle di cibo lungo il fiume, Kagoshima, a sud, dominata dal Sakurajima che erutta fumo e cenere nera e lo fa così spesso che nessuno gli fa più caso, e a noi regala un tramonto di fumo rosa come zucchero filato gusto fragola. E poi c’è Isa, alla quale non avremmo dato una lira e invece ci stupisce con le rovine di una centrale semi sommersa da acque verdi e limacciose, Huyga sul mare, la minuscola Kokonoe dove dormiamo in una casa centenaria dove l’unico rumore è quello del legno che scricchiola sotto i nostri piedi.
Ma più di tutto, più dei paesaggi e degli onsen dove l’acqua calda ci lessa felici, più del cibo squisito, del sashimi che è buono pure al supermercato e degli onighiri che divoriamo come caramelle, del Kyushu amiamo la gente. I giapponesi li ricordavamo timidi, pure un po’ schivi. Ci era sembrato, anni fa, mentre viaggiavamo tra Tokyo e Kyoto, che non amassero sfoggiare un inglese troppo rudimentale, e allora preferissero lasciar perdere ogni conversazione. In Kyushu l’impressione che abbiamo è l’esatto opposto. Ci basta mettere piede in un izakaya, uno dei tanti locali microscopici dove si va a mangiare ma soprattutto a bere, che la gente del posto drizza le orecchie. Ci vedono stranieri, ci sorridono, si agitano sugli sgabelli attorno al bancone finché non trovano un pretesto per attaccare bottone, e in genere non gli ci vuole più di qualche minuto. Alcuni masticano un po’ d’inglese, la maggior parte si spiega a gesti, tutti ridono un sacco quando brindiamo dicendo “kampai”. Una sera dopo l’altra collezioniamo conversazioni strampalate e ci portiamo a casa un siparietto da bar, a Kagoshima anche dei sottobicchieri a forma di gatto che le proprietarie dell’izakaya ci hanno regalato. Spiace, certo, non riuscire a parlare veramente, a chiedere, conoscere, ficcare il naso nella loro vita. Di domande ne avremmo un sacco, tipo come si gioca a pachinko, o siete matti a mangiarvi il sashimi di pollo? Ma le vie della comunicazione sono infinite ed è sempre bello rendersi conto che le parole non sono l’unico ponte che ci porta agli altri. Il nostro Kyushu è così, pieno di ponti e ponticelli costruiti con mezzi di fortuna. Traballanti, sì, ma forti abbastanza da farci arrivare dall’altra parte.