Riassunto della puntata precedente: arrivati nelle Filippine, andiamo in montagna, che è l’ultima cosa che verrebbe in mente di fare in un arcipelago di settemila isole a mollo nell’oceano. La scelta si rivela però azzeccata e quando lasciamo le alture, un po’ ci si spezza il cuoricino. Fine della puntata precedente.
E ora, isole, a noi. Armati di crema solare protezione 50+ e antizanzare che non useremo (perché di zanzare ce ne sono di più a Milano), prendiamo il primo di molti voli interni per iniziare la nostra esplorazione di spiagge bianche, acque cristalline, fondali ingombri di coralli e affollati di pesci che manco un acquario all’ora di punta. Potrei descrivervi una per una le isole che abbiamo toccato, snocciolare nomi di località paradisiache e dettagliare per ognuna la sfumatura di blu che assume il mare con il passare delle ore, dalla mattina alla sera. Ma non lo farò: se scrollate giù fino alle foto dell’ing, capirete comunque di cosa parlo senza bisogno di parole. Quello che vi racconto, invece, sono le tre modalità per l’esplorazione isolana che abbiamo sperimentato – una non esclude l’altra, anzi combinarle è un’ottima idea per vedere tanto e scongiurare la noia in soggetti iperattivi che non amano spiaggiarsi a quattro di bastoni (ogni riferimento a ingegneri realmente esistenti è puramente casuale).
Modalità n.1: LA BARCA
Le barche tipiche delle Filippine si chiamano bangka, sono lunghe e strette, di legno, e hanno ai lati delle specie di bilancieri che le fanno sembrare degli enormi ragni galleggianti. Ce ne sono di vari formati, grandi, piccoli e medi – nascono come barche di pescatori ma oggi fungono anche da shuttle per i turisti che se ne vogliono andare a zonzo per l’arcipelago. Imbarcarsi su un bangka è il modo migliore per girare le isole della provincia di Palawan: lo si apprezza soprattutto dopo essersi sparati cinque ore di van refrigerato, come abbiamo fatto noi per arrivare a El Nido dopo la visita al fiume sotterraneo di Puerto Princesa, patrimonio Unesco, meraviglia del mondo naturale e bla bla.
A proposito di El Nido – secondo le guide, i blog e i guru, è uno dei luoghi più belli meravigliosi imperdibili delle Filippine. Vero, è molto grazioso e altrettanto turistico, una succursale dell’occidente in terra pilippina. Di buono ha tutti i servizi, compresi dei negozi carini che non ho trovato altrove; di malo, un po’ troppo casino per i nostri gusti, ovviabile però con due mosse scaltre: evitare gli alloggi in centro e optare per quelli più defilati a Calaan Beach, zona molto più economica e local; dei 4 tour giornalieri, che ti portano in barca nelle spiagge più belle attorno alla cittadina, evitare l’A che è quello che scelgono tutti, noi pure – e per questo ci siamo stramaledetti. Dopo il bagno di folla, comunque, partiamo per tre giorni di island hopping verso nord, con destinazione Coron Town, sull’isola di Busuanga, ed è un’ottima idea. A bordo di un bangka a due piani, in compagnia di una ventina di altri turisti e di un equipaggio filippino con ottime doti culinarie e canore (karaoke rules), galleggiamo per giorni in acque meravigliose, calde, pesciosissime. Approdiamo su spiagge bianche che danno l’illusione di essere deserte (nell’insenatura accanto c’è un altro bangka con altri turisti, ma non si vede), facciamo un sacco di snorkeling, ci ustioniamo, dormiamo a riva, in capannine di legno e paglia, mangiamo quintali di pesce e beviamo dell’orrido rum e cola con il Tanduay, che scopriamo essere il rum più venduto al mondo. Il bilancio è decisamente positivo, ma al termine dei tre giorni, sbarchiamo felici di tornare padroni del nostro tempo, senza una guida – per quanto molto simpatica – che scandisce tirannica le nostre giornate.
Modalità n.2: IL MOTORINO
Affittare un motorino a Coron Town e vagare per l’isola di Busuanga ci restituisce la dimensione del viaggio che più ci è propria, quella autonoma e randomica. Andiamo dove vogliamo, quando vogliamo, per tutto il tempo che ci serve e con il solo limite del sole che scende e la notte che cala. Così di buon’ora attraversiamo l’isola, facciamo incetta di manghi e banane a una bancarella, ci spiaggiamo a Ocam Ocam Beach, che in tre secondi diventa la nostra spiaggia preferita e lo rimarrà per il resto del viaggio – deserta, piena di palme, con un mare piatto e trasparente come un vassoio di cristallo, e un bangka solitario che sembra messo lì a posta a galleggiare per rendere più interessante il paesaggio. La stessa modalità – motorino e giri a random – la adottiamo per la tappa successiva, l’isola di Bohol (che, logisticamente, sta a un’ora di volo e due di traghetto da Coron, in un altro gruppetto di isole). Bohol è famosa per le Chocolate Hills, delle colline morbidose ricoperte di vegetazione che sembrano uscite da un racconto di Tolkien, per i tarsi dagli occhi dolci che dormono sugli alberi e per il fiume Loboc che attraversa l’isola, dove si va in canoa a pagaiare o in barchetta di notte ad avvistare le lucciole. Bohol senza motorino sarebbe un “anche no”, con il motorino diventa esplorabile nelle sue parti più remote, dove le strade si attorcigliano e i paesini vivono la loro vita ignari del turismo di massa. Per noi, un grande sì.
Modalità n.3: MEZZI PUBBLICI E PIEDINI SANTI
Al netto di barche e motorini, quel che resta per muoversi sulle isole sono i millemila tricicli che affollano le strade, tutte. Sono degli scafandri divertenti, degli scatolotti attaccati di lato a motorini scassati. Costano poco, fanno molto rumore e sobbalzano che è un piacere. Ce ne sono ovunque e non prenderli è quasi un’offesa alla popolazione. A Boracay, dove ci muoviamo spesso a piedi, i guidatori reagiscono piccati a ogni nostro “no, thanks”. A proposito di Boracay, la perla delle Filippine che tutti decantano: per quanto White Beach sia oggettivamente una bellissima spiaggia, lunga e bianca e piena di palme, e il lato opposto dell’isola, sempre ventoso, sia il paradiso del kite, questa non è il luogo più bello che abbiamo visto, né il più piacevole, né tantomeno quello imperdibile. Con il senno di poi, l’avremmo persa volentieri. Piena di gente, cara rispetto al resto delle Filippine nonostante la mediocrità dei servizi, punteggiata di trappole spennaturisti, Boracay riunisce nella sua decina di chilometri quadrati tutto il peggio che abbiamo sperimentato in venti giorni di viaggio. Ce ne facciamo una ragione, consolandoci con l’happy hour in uno dei tanti baretti sulla spiaggia e con un paio di tramonti di pregio. La ricorderemo così, Boracay, rimuovendo tutto il resto.