Lasciamo l’Uzbekistan con qualche difficoltà, e non perché ci dispiaccia andarcene da un Paese così bello, ma perché i biglietti del treno che passa da Nukus e attraversa il confine con il Kazakistan sono prima inacquistabili, poi sold out come un concerto di Taylor Swift. Esauriti loro, esauriti noi, ripieghiamo su TRE voli, (tre!!!), facendo il giro lungo (Nukus-Tashkent, Tashkent-Almaty, Almaty-Aqtau) e ripromettendoci di non lamentarci più delle ferrovie italiane. Ci consoliamo con mezza giornara ad Almaty, che altrimenti non avremmo visitato (spoiler: potevamo vivere senza) e finalmente conquistiamo Aqtau, la porta del Mangystau, la regione che occupa una bella fetta del Kazakistan sud-occidentale, tra il mar Caspio e il confine uzbeko. Il Mangystau è prevalentemente desertico e in gran parte disabitato, ma ricco di giacimenti petroliferi e di gas; noi, però, non ci andiamo per trivellare, ma per percorrere in lungo e in largo il suo vasto nulla, fatto di panorami surreali, presi in prestito a un altro Pianeta. Canyon, gole, guglie, spiagge di sale e formazioni rocciose che sfidano ogni logica: tutto quello che milioni di anni fa si trovava sul fondale di un oceano poi scomparso, oggi è lì in bella mostra, modellato dal vento, trasformato in uno spettacolo di quelli difficili da descrivere. E dunque per fortuna che ci sono le foto dell’ing.
Per cinque giorni, passiamo attraverso panorami bianchi e grigi di gesso e calcare, scaliamo collinette di pietra friabile che ci si sfalda sotto i piedi, dominiamo paesaggi lunari dove l’unico colore acceso è l’azzurro del cielo. Di continuo, cerchiamo le parole per spiegare quello che stiamo vedendo, ma è complicato come descrivere qualcosa che non ha eguali. E allora via di paragoni azzardati: il monte Bokty è una yurta gigante, anzi no, una torta a tre strati, panna, fragola e nocciola. Le scogliere senza mare di Bozzhira, che si ergono assurde nel deserto, sono cattedrali sulla Luna. Le rocce cisellate dal tempo e dal vento, ai bordi della palude salata di Tuzbair, sono i plissé inamidati di un abito d’alta moda, schiuma di mare solidificata, fiocchi di latte nel piatto dei giganti – gli stessi giganti che hanno giocato a biglie nella valle di Torysh, disseminata di pietre sferiche che non è stata la mano dell’uomo a scolpire. E via così, potrei continuare per ore, potrei frustrarmi all’infinito per descrivere le gole, i riflessi e la luce, il silenzio rotto dagli animali notturni, le stelle che bucano il cielo, e il vento che spazza via tutto, tutto, anche i pensieri.
Potrei, ma non lo farò, perché tanto – ripeto – ci sono le foto dell’ing. Foto che non raccontano, invece, dei nostri autisti che dovevano essere anche guide e invece ci dicevano a malapena: Stop, Go, Eat, Panorama, con una varietà espressiva che in confronto Fabio Volo pare Dante. Comunicativi come due adolescenti ribelli, improvvisati come fuorisede che campano di pasta al tonno, tanto sprovveduti da partire per cinque giorni nel deserto senza i cavi per la batteria dell’auto (e se vi state chiedendo se ce n’è stato bisogno, la risposta è sì, perché una notte qualcuno – indovinate chi – ha lasciato i fari dell’auto accesi). Senza di loro, il nostro viaggio non sarebbe stato lo stesso. Probabilmente sarebbe stato meglio. Ma questo non lo sapremo mai.





