Dopo Samarcanda, Bukhara e Khiva, cala il sipario sulla Via della Seta. Ubriachi di moschee e madrase, di minareti, piastrelle e iscrizioni, abbandoniamo l’antica rotta commerciale più famosa di sempre e continuiamo verso ovest, in direzione Karakalpakstan, cioè la regione più ampia ma anche meno popolosa dell’Uzbekistan. Qui ci aspettano tre tappe: Nukus, Moynaq e il Lago d’Aral. Praticamente un’escalation di tristezza e depressione, che ora vado a raccontarvi.
- Nukus. Ultima città degna di questo nome prima del Nulla, Nukus è un curioso bouquet di bruttura sovietica e tentativi di addolcirne l’estetica, di palazzoni grigi e pasticcerie dai colori pastello, un mix tra la depressione architettonica e il mondo di Barbie. È uno stop quasi obbligato per chi proseguirà verso Moynaq e l’Aral, e allora tanto vale approfittarne per visitare il museo intitolato a Igor Savitsky, artista e collezionista illuminato che raccolse una quantità sterminata di opere di avanguardisti russi invisi a Stalin, che altrimenti chissà che fine avrebbero fatto. È un museo sorprendente, allestito benissimo (spoiler: da curatori italiani), dove vale davvero la pena passare un paio d’ore. Anche perché a Nukus non c’è molto altro da fare.
- Moynaq. Ci si arriva in auto da Nukus, in circa tre ore di strada asfaltata così male che vorresti scendere e continuare a piedi. Un tempo – e non parliamo di un tempo lontano, ma degli Anni 60 nel 900 – Moynaq era una cittadina fiorente sulle rive del Lago d’Aral, porto di pescatori, sede di industrie per la lavorazione del pesce, nonché meta turistica alquanto gettonata. Ma oggi arrivi a Moynaq e il Lago d’Aral non c’è. Né ci sono il porto o i pescatori. Le fabbriche sono chiuse, gli hotel abbandonati, le strade polverose e deserte. I palazzoni sovietici cadono a pezzi, i pochi negozi vendono prodotti che sanno di archeologia. Arenate su quella che non è più la riva dell’Aral, le navi dei pescatori si stagliano come un monito arrugginito contro l’orizzonte desolato, vestigia fotogenica di uno dei disastri ecologici più clamorosi della storia dell’umanità. Sì, perché se l’Aral si è infeltrito come un maglioncino messo in lavatrice a 90°C, è solo colpa dell’uomo. Dei russi, nello specifico, che quando l’Uzbekistan faceva ancora parte dell’Urss hanno pensato bene di deviare il corso dei fiumi immissari del lago – che, per inciso, era il quarto più grande del mondo – per irrigare le piantagioni di cotone. Ed ecco il risultato: chiusi i rubinetti, l’Aral ha iniziato a seccarsi, a ritirarsi, ad allontanarsi da Moynaq. E Moynaq è caduta in agonia. Oggi non c’è lavoro, l’aria è insalubre, il terreno arido e intriso di sali, pesticidi e fertilizzanti chimici, le risorse idriche si sono fatte scarse e contaminate. È un posto terribile, dove nessuno dovrebbe vivere – e chi ci vive, sospetto, lo fa perché non ha scelta. Eppure è un posto dove tutti dovrebbero venire, almeno una volta nella vita: per vedere con i propri occhi il male che l’uomo può fare al Pianeta.
- L’Aral. Il grande protagonista. Il grande assente. Per vederne le acque, da Moynaq bisogna percorrere oltre 120 km su quello che un tempo era il fondale del lago. Una strada accidentata e piena di buche, che noi – sull’auto decisamente inadeguata che ci procura il padrone della casa dove soggiorniamo – percorriamo in 4 interminabili ore di sofferenza – 4 ad andare e 4 a tornare, il tutto per dire ciao a una spiaggia deserta e spazzata dal vento, dove anche mangiare un panino è un’impresa (per non parlare di fare la pipì). Ci sono un piccolo molo, quattro yurte in croce dove ogni tanto soggiorna qualche turista, qualche baracca abbandonata. Di nuovo, ci domandiamo se valeva la pena farsi tutto questo sbattimento per contemplare questo Bel Cavolo di Niente. Sul momento, la risposta è no. Ma dopo una lenta digestione, e una riflessione sofferta, io, almeno, ho cambiato idea. Penso che l’Aral mi resterà inciso in testa più di ogni moschea e madrasa e lapislazzulo celeste. L’Uzbekistan, per me, da oggi sarà anche questo.





