Arriviamo a Rurrenabaque e ad accoglierci c’è un comitatto di zanzare. Welcome to the jungle, ci cantano in coro. Siamo alle porte della foresta amazzonica, e per i prossimi giorni ci figuriamo vita dura nel folto della selva selvaggia, noi, la guida quechua (che è la comunità indigena predominante, non il marchio Decathlon) e un sacco di bestie feroci. In realtà non è proprio così: l’ecolodge dove dormiamo la prima notte, per quanto circondato da una fitta vegetazione, è più lussuoso della maggior parte delle baracche degli ultimi quattro mesi, e il cuoco è un creativo che cerca di ucciderci di cibo in tutte le forme. Quanto agli animali, famigliarizziamo con Morena, socievolissimo uccello trombettiere adottato dall’hotel, e Petti e Parrotto (così ribattezzati dall’ing in onore di amici lontani), maiali selvatici convinti di essere cani da salotto.
Poi però ci addentriamo nella selva, e allora sì che ci sentiamo in Amazzonia. Il verde è sopra di noi, sotto, e tutto attorno. L’occhio non va oltre, solo a tratti si intuisce il cielo o un raggio di sole. L’inventario di suoni e rumori è quanto di più bizzarro. Fruscii, cinguettii, versi per i quali noi, gente di città, non conosciamo le parole. “Sembra una pistola laser”, “Sembra un allarme in lontananza”. Ci proviamo, ma è impossibile descrivere le voci degli uccelli che poi sentiamo volare da un albero all’altro. Né è più facile con i profumi, dolci e maturi, un bouquet di papaya selvatica e chissà cos’altro che pervade l’aria e ti penetra nei polmoni.
La seconda notte campeggiamo, o meglio dormiamo all’aperto su un materasso protetto solo da una zanzariera. “Se siamo fortunati potremmo vedere un puma”, dice Nilo, la guida. Noi non siamo tanto sicuri di voler essere fortunati (e comunque no, alla fine del puma abbiamo visto solo le impronte). Al posto del cuoco estroso ora abbiamo un cuoco schizzato, Darwin (vorrei vedere voi a vivere da soli nella giungla), che cucina meglio di uno stellato e ci racconta che “quando fai i trekking di 25 giorni ti addentri talmente nella foresta che, se sei fortunato, puoi imbatterti nei narcotrafficanti che, tra Bolivia e Perù, hanno il loro quartier generale”. Di nuovo pensiamo che forse questi quechua hanno un concetto di fortuna un po’ diverso dal nostro.
Ma in fondo ognuno è fatto a modo suo. Mentre spiamo i pappagalli che volano a coppie verso casa – colorati e perfettamente sincronizzati, vere anime gemelle – Nilo ci racconta di Lars, un ragazzo norvegese che vent’anni fa visse per qualche tempo nel suo villaggio. La sua fissa era incontrare i toromonas, l’unica popolazione indigena a non aver mai avuto contatti con i conquistadores. Nomadi, feroci, chiusi nel loro mondo, di certo non ricambiavano la sua curiosità, tanto che, quando finalmente lui riuscì a scovarli, per poco non gli fecero la pelle. Lars nuotò per giorni fino al villaggio, rimase buono buono per un po’. “Poi sparì di nuovo”, conclude Nilo. “Lasciò un biglietto, disse che tornava a cercarli”. Non lo rividero mai più. Fortunato nell’accezione amazzonica del termine, avrà finito per trovarli.