Lui fa affari nel quartiere dei ricchi, lei si avventura tra le baracche della gente mala – muy mala – dove agio e comodità non esistono, figurarsi la sicurezza. Carlo Piperno e Gabriella Fioramonti, gli italici che incontriamo a Lima, non potrebbero essere più diversi, né meglio rappresentativi dei due volti della capitale peruviana.
Con lui, napoletano trasferito da oltre 10 anni – la cadenza del sud è quasi dissolta nella cantilena del castigliano – abbiamo appuntamento per cena. Il ristorante è di livello, la vista sull’oceano un plus da non sottovalutare. Si beve bene e si mangia meglio. Carlo non lo dice – non è necessario – ma si vede lontano un miglio che qui è di casa. “Mi ero stufato dell’Italia”, spiega con semplicità quando gli chiediamo come sia finito a Lima, dove si occupa di strategia e sviluppo commerciale per un’azienda di filamenti metallici. Laureato in economia con specializzazione in marketing, è qui dal 2007. Ha un appartamento a Miraflores, una bella auto, una fidanzata. “Ma non resterò per sempre: ora punto al nord Europa”, dichiara. Va dove ti porta il business, insomma. E la curiosità, la voglia di rimettersi in gioco. Perché anche se Carlo in Perù non fa certo una vita di stenti, tra cene gourmet e weekend di kite nei migliori hotel della costa, l’impressione che dà è quella di non volersi accontentare. Di sapere che, dietro l’angolo, c’è sempre un nuovo traguardo da raggiungere, un margine di miglioramento. Che noia i connazionali che danno tutto per scontato, ci dice, che non hanno il coraggio di scommettere, di cambiare le carte in tavola.
A proposito di coraggio, chi ne ha da vendere è Gabriella, romana, che a 32 anni ne ha già passati quattro nei peggiori bassifondi, impegnata in progetti sociali rivolti soprattutto alle donne e ai minori. Per prestare servizio civile (una vocazione di famiglia: prima che lei nascesse i suoi genitori sono rimasti due anni e mezzo in Venezuela) ha scambiato la bellezza della città eterna – “Quello che mi manca di più dell’Italia” – per l’incertezza del Perù, “dove tutto è contradditorio e i conflitti sociali, il machismo, la corruzione politica, sono all’ordine del giorno. Non che da noi non esistano, anzi. Ma qui vi sono stata catapultata nel mezzo, sono stata costretta ad aprire gli occhi”. Dai famigliari dei desaparecidos del conflitto armato (terminato meno di 20 anni fa e ancora tabù per i peruviani) ai bambini vittime di violenza domestica, Gabriella ha visto di tutto. “Poi per un anno e mezzo mi sono spostata ad Arequipa, dove invece aiutavamo le donne a emanciparsi creando piccole realtà imprenditoriali”. Quasi una passeggiata in confronto all’esperienza limeña, che implicava continue incursioni nei cerros, le baraccopoli sulle montagne attorno alla città. Ora i progetti sono terminati, Gabriella è a caccia di un nuovo lavoro. “Non tornerò a casa”, dice. “Ho paura di “sedermi”, di rientrare nella mia zona di comfort e non uscirne più. Voglio restare sveglia. Voglio restare scomoda”. Modalità differente, eppure stessa conclusione di Carlo. Sarà un caso?