Da Cat Ba a Hoi An sono un mucchio di chilometri, ma il tempo stringe, il visto scade il 24 gennaio e noi abbiamo ancora tutto il sud da vedere. Così escogitiamo uno stratagemma e prendiamo un bus notturno che da Hanoi ci porta fino a Hué, città imperiale dove ci aggiriamo come zombie tra le 5 e le 9 del mattino. Qui Milagros, nota meretrice golosa di chiavi inglesi, si passa ben due meccanici, perché il viaggio in pullman, che lei ha trascorso sdraiata nel bagagliaio insieme a valigie e scatoloni, evidentemente non è stato di suo gradimento.
Svariate ore dopo approdiamo a Hoi An, pronti ma non prontissimi al bagno di folla che ci aspetta. I turisti sono un esercito, e tutti concentrati in centro: il risultato è che potremmo essere ovunque nel mondo, a Venezia come a Miami Beach. Bello eh, bellissimo: la città è ben conservata, pittoresca, circondata da campi e a poca distanza dal mare. Incredibilmente, c’è pure il sole. Però che fatica: ovunque qualcuno cerca di venderti qualcosa. Le sartine – ce ne sono a centinaia, Hoi An è famosa soprattutto per la loro attività, ed è difficile andarsene senza un capo su misura – fanno la posta fuori dai laboratori, invitandoti a entrare come le sirene di Ulisse. Gli ambulanti vendono banana pancake, mango a fette, pizza viet su foglie di riso, i ristoratori cercano di procacciarsi clienti a qualsiasi ora del giorno. Si paga il biglietto per entrare nelle case storiche, per attraversare il ponte giapponese, per accedere a parte della zona pedonale e, fuori città, per passeggiare nella piantagione di palme d’acqua. Tutto è molto grazioso, ma c’è troppo di tutto, e tutto uguale: troppi negozi che propongono camicie con la stampa delle banane, troppi stranieri che le comprano e le indossano pure, troppi che sfoggiano l’ao dai, l’abito tradizionale vietnamita, come a una sfilata di carnevale. Troppi sandaletti di pelle, troppi vestitini anni Cinquanta, troppi cappelli a punta da riportare come souvenir.
Di Hoi An noi amiamo la spiaggia, gloriosa nel primo vero giorno di sole da quando siamo in Vietnam, le viette inspiegabilmente deserte a un passo da quelle sovraffollate, i ristoranti dove a malapena riusciamo a farci capire. Amiamo la sensazione di essere qui un attimo prima che sia troppo tardi (anche se forse lo è già), perché il ritmo di crescita è frenetico, i cantieri sono ovunque e chissà quanto poco ci vorrà prima che sparisca anche l’ultima traccia del passato. Amiamo un piccolo negozio del centro, dove Montone perde la testa per un manichino con gli occhiali da sole e un’eccentrica signora bergamasca. Ma questa è un’altra storia…