“Le somme le tiriamo domani”. Così avevamo promesso nell’ultimo post del viaggione, mentre, stravolti e sbattuti come l’ovetto per lo zabaione, ce ne tornavamo a casa da Panama con un volo in ritardo di circa 12 ore. Ma domani è diventato dopodomani e poi dopodomani ancora, sono passati oltre due mesi e di somme non ne abbiamo tirate neanche l’ombra.
Riprendere la vita normale è stato allo stesso tempo sorprendentemente facile e traumatico. Facile perché abbiamo ritrovato dentro di noi i vecchi automatismi mai dimenticati, la nostra routine di lavoro, casa, palestra, amici, birrette (côté grafomane: l’ingegnere il lavoro l’ha dovuto cercare e si è settato quindi in un piacevole tran tran di colloqui e attività casalinghe). Traumatico perché vorrei vedere voi, dopo sei mesi, a stare fermi nello stesso posto, nello stesso ufficio, davanti allo stesso computer.
Vorrei vedere voi a rendervi conto che siete cambiati, e tutti gli altri no. Che ve ne siete stati via mezz’anno per poi tornare e sentire la gente lamentarsi delle stesse cose, mai contenti, mai consapevoli, nemmeno per un secondo, della nostra fortuna di privilegiati occidentali con soldi abbastanza per saltare su un aereo e viaggiare, vivere in una casa di mattoni, lavarci con l’acqua corrente.
È dura smettere i panni dell’ingegnere e della grafomane e rivestire quelli di Giorgio e Federica. Non aver più itinerari da studiare, foto da scattare, autobus da prendere. Ricominciare a scrivere per un settimanale a diffusione nazionale invece che per un blog che leggete in quindici, ma che mi diverte immensamente di più perché è mio e posso farci ciò che voglio. Chiedersi: E adesso? e non sapere che dirsi. Capire che cercavamo risposte, ma abbiamo trovato solo domande. Un sacco di domande.
Perché non si può aprire una parentesi così e poi chiuderla del tutto, farsi un album di foto dove rifugiarsi ogni tanto, infilare le emozioni sotto il tappeto e fingere che non siano mai esistite. È impossibile, è immorale, è illegale. Soprattutto, è profondamente idiota.
Nel frattempo accanto al computer dell’ufficio mi sono attaccata (io, Federica, pennivendola di professione, grafomane a tempo perso) una foto di noi due. Siamo in Bolivia, vestiti da minatori. Ci ho scritto sopra Je suis Potosì e la guardo ogni volta che la vita mi sembra grama. Per non dimenticare.
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