Immaginate di essere innaffiati da un getto di acqua salata e schiaffeggiati con una retina di vongole. La sensazione, quando si arriva sulla spiaggia di Legzira, a pochi chilometri dalla cittadina di Sidi Ifni, è più o meno quella. L’oceano è maestoso, pare calmo quando visto da lontano ma basta avvicinarsi per essere travolti dal suo frastuono, dalle onde che si schiantano sulle rocce sollevando schizzi e schiuma. Varia il volume ma non c’è interruttore e il sottofondo resta costante. E l’odore: l’odore è di mare al cubo, forte, pervadente, persistente. Ti accompagna ovunque, ti segue fino in camera da letto, lo senti pure mentre dormi, mentre sogni. C’è poco da rilassarsi a Legzira. Si cammina, si passa sotto l’arco di pietra imponente che campeggia in tutte le fotografie – una volta erano due ma l’altro è crollato, speriamo che questo regga il tempo di allontanarci – poi ci si siede da qualche parte e si guarda e si aspetta, perché fondamentalmente non c’è altro da fare. Bello, bellissimo, ma non fa per noi: all’ingegnere, che è uomo di lago, viene mal di testa, la grafomane si sente soffocare, stretta tra l’acqua e la roccia, senza via di scampo.
Basta una notte, forse avanza. Esploriamo Sidi Infi, che fino agli Anni 70 era enclave spagnola e ancora porta i segni, ormai in rovina, di quella dominazione. Poi andiamo ancora più a sud, senza ben sapere cosa troveremo. Le guide sono parche d’informazioni, sulla carta la città di Guelmime non sembra niente di che, ma abbiamo ancora una notte a disposizione e da qualche parte dobbiamo pure dormire. L’ingegnere insiste, vuole vedere l’oasi di Tighmert, una ventina di chilometri più giù. E vince tutto.
All’improvviso siamo in paradiso. Ci sono palme da dattero alte come palazzi, edifici bassi di terra, strade ombreggiare dove chiunque ti incontra ti regala un sorriso, piante, fiori, caprette. L’oasi è grande cinque chilometri per dieci, ha cinque quartieri, cinque scuole e un liceo, tre sorgenti d’acqua; ci vivono cinquemila persone e ci passano pochi turisti, che vengono accolti come re. L’ospitalità alla Maison Nomade è squisita, Brahim ci offre tè e datteri in terrazza, ci procura una guida (indispensabile non tanto per girare quanto per rispondere alle nostre mille domande) e la shisha dopo cena. Lo amiamo. Amiamo questo posto e ci resteremmo un’altra settimana se non avessimo un aereo da prendere. Resteremmo a chiacchierare con lui sotto la tenda berbera, andremmo ancora a trovare Abdou, che gestisce il museo Tuareg nel vecchio caravanserraglio ed è un pozzo di aneddoti, suoneremmo di nuovo alla porta di Sergio, l’italiano che si è trasferito qui quindici anni fa e ha creato un meraviglioso giardino botanico (ma questa è un’altra storia). Ce ne andiamo, sì, ma con il cuore siamo già di ritorno. La prossima volta, ci hanno promesso, ci porteranno giù giù giù nel deserto, fino al confine con la Mauritania…